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Anestesia e rianimazione del paziente diabetico M. Carles, J. Dellamonica, A. Raucoules-Aimé Il diabete è una malattia con molte conseguenze per le sue complicanze. Il diabete di tipo 2 (in precedenza detto «non insulinodipendente») è il più frequente. L’intervallo di tempo medio che intercorre tra la comparsa dell’iperglicemia e la diagnosi clinica di diabete di tipo 2 è di dieci anni. In queste condizioni le complicanze micro- e macrovascolari cominciano a svilupparsi prima che la diagnosi sia stata posta, il che spiega in gran parte l’importante morbilità in questa popolazione. Il rischio operatorio è essenzialmente legato alle complicanze degenerative cardiovascolari o che interessano il sistema nervoso autonomo. In questo contesto la valutazione preoperatoria è fondamentale. Il ruolo dell’anestesia locoregionale è oggi rivalutato; altrettanto definiti sono ora i livelli di controllo glicemico nell’intra- e nel postoperatorio. Una normalizzazione della glicemia sembra auspicabile nel paziente diabetico in rianimazione o sottoposto a un intervento chirurgico a rischio di ischemia. Le complicanze acute del diabete affrontate in questo capitolo sono la sindrome da iperglicemia iperosmolare, la chetoacidosi diabetica, l’acidosi lattica e l’ipoglicemia. © 2008 Elsevier Masson SAS. Tutti i diritti riservati.
Parole chiave: Diabete di tipo 1; Diabete di tipo 2; Complicanze degenerative; Anestesia generale; Anestesia locoregionale
Struttura dell’articolo ¶ Introduzione
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¶ Diagnosi, classificazione ed epidemiologia del diabete
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¶ Gestione anestesiologica del paziente diabetico 2 Lesioni degenerative e valutazione preoperatoria 2 Complicanze degenerative e rischio operatorio 5 Ruolo dell’anestesia locoregionale 7 Come controllare la glicemia e quale deve essere il livello ottimale della glicemia nel perioperatorio? 8 Nuovi trattamenti farmacologici del diabete 8 Gestione in alcune circostanze particolari 10 ¶ Rianimazione del diabetico Sindrome iperglicemica iperosmolare Chetoacidosi diabetica Acidosi lattica e diabete Ipoglicemie
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■ Introduzione Il diabete è una malattia piena di conseguenze per le sue complicanze. Esso costituisce un problema di salute pubblica il cui peso umano ed economico è sempre in aumento. Le sue complicanze ne fanno una malattia la cui morbilità e mortalità sono fortemente aumentate rispetto alla popolazione generale. Per quanto concerne le complicanze cardiovascolari, il rischio è moltiplicato di un fattore da 2 a 3. Il diabete è la prima causa di inizio di dialisi in Francia, e il rischio di amputazione di un arto è moltiplicato per 10. Infine, le complicanze oculari ne fanno una delle prime cause di cecità o di alterazione dell’acuità visiva [1]. Anestesia-Rianimazione
Il diabete di tipo 2 (in precedenza detto «non insulinodipendente») è il più frequente. Negli Stati Uniti, studi longitudinali di follow-up di soggetti diagnosticati come diabetici in base a un test di iperglicemia provocata orale (IGPO) patologica hanno dimostrato che l’intervallo medio tra la scoperta laboratoristica e la diagnosi clinica di diabete di tipo 2 è di dieci anni. In queste condizioni le complicanze micro- e macrovascolari cominciano a svilupparsi prima che la diagnosi sia stata posta, il che spiega in gran parte l’importante morbilità in questa popolazione. I criteri diagnostici per il diabete che hanno prevalso fino a questo momento (glicemia ≥1,4 g l-1) hanno dovuto essere rivisti al ribasso in quanto hanno contribuito al ritardo di inizio della gestione di questa patologia (cfr. capitolo seguente). Questa modificazione dei criteri diagnostici porta anche a una revisione della classificazione dei diabeti e a una rivalutazione dei dati epidemiologici. Quanto al rischio operatorio, esso è essenzialmente legato alle complicanze degenerative del diabete, in particolare a quelle cardiovascolari o a quelle relative al sistema nervoso autonomo. In questo contesto la valutazione preoperatoria è fondamentale. D’altronde, il ruolo dell’anestesia locale è oggi rivalutato e i livelli di controllo glicemico nell’intra- e nel postoperatorio sono ora altrettanto ben definiti.
■ Diagnosi, classificazione ed epidemiologia del diabete Il diabete è una patologia metabolica caratterizzata dalla presenza di un’iperglicemia cronica derivante da un deficit di secrezione di insulina, da anomalie dell’azione dell’insulina sui tessuti bersaglio o dall’associazione di queste due situazioni. La diagnosi del diabete si basa dunque sulla misurazione della glicemia eseguita a digiuno, ovvero due ore dopo l’assunzione
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Tabella 1. Criteri diagnostici del diabete. Antichi criteri diagnostici (OMS, 1980) Era considerato diabetico un soggetto che presentava in due occasioni: - una glicemia a digiuno >7,8 mmol l-1 (1,40 g l-1) - o una glicemia due ore dopo l’assunzione orale (carico) di 75 g di glucosio, >11 mmol l-1. Nuovi criteri proposti dall’American Diabetic Association (ADA, 1997) e dall’ANAES (1998) È considerato diabetico un soggetto che presenta in due occasioni una glicemia a digiuno (almeno otto ore di digiuno) >7 mmol.l-1 (>1,26 g l-1). È considerato normale un soggetto che ha una glicemia a digiuno <6,1 mmol l-1 (<1,10 g l-1). Sono considerati come aventi una glicoregolazione anormale: - i soggetti che hanno un’iperglicemia moderata a digiuno: glicemia >6,1 mmol l-1 e <7 mmol l-1 (>1,10 g l-1 e <1,26 g l-1); - i soggetti con intolleranza al glucosio: glicemia a digiuno <7 mmol l -1 (< 1,26 g l-1) e glicemia due ore dopo l’assunzione di 75 g di glucosio >7,6 mmol l-1 (>1,40 g l-1) e <11,1 mmol-1 (<2 g l-1). OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità; ANAES: Agence nationale d’accréditation et d’évaluation en santé.
di 75 g di glucosio (HGPO) (Tabella 1). In assenza di sintomi clinici la diagnosi di diabete, prima di essere definita, deve essere confermata da una seconda misurazione. La classificazione del diabete comporta schematicamente due forme: il diabete di tipo 1, in precedenza chiamato «diabete insulinodipendente» o «diabete giovanile», che rappresenta circa il 10% dei casi (150 000 persone in Francia) e inizia abitualmente prima dei 30 anni, e il diabete di tipo 2, in precedenza chiamato «diabete non insulinodipendente» o «diabete della maturità», che rappresenta circa il 90% dei casi (1 300 000 persone in Francia). La prevalenza del diabete di tipo 2 diagnosticato è vicina al 3% nella popolazione francese. La popolazione a rischio di diabete di tipo 2 corrisponde essenzialmente alla popolazione degli obesi. La prevalenza dell’obesità (indice di massa corporea >30 kg m-2) nell’adulto francese è stimata oltre il 10%. Se il diabete di tipo 1 è generalmente riconosciuto in presenza di sintomi (perdita di peso, poliuria, polidipsia), il diabete di tipo 2 è più spesso asintomatico e viene diagnosticato casualmente, in occasione di un prelievo ematico nel corso di una valutazione sistematica, in particolare prima di un intervento chirurgico. Il numero di diabetici sconosciuti in Francia non supera probabilmente i 500 000. Così, al momento della diagnosi clinica di diabete la retinopatia è presente nel 10-29% dei pazienti e la proteinuria è rilevata nel 10-37% dei soggetti. Per quanto riguarda le complicanze macrovascolari (coronaropatia, arteriopatia periferica), esse esordiscono ancora più precocemente, fin dallo stadio di intolleranza al glucosio. Questa malattia si associa spesso ad altri fattori di rischio cardiovascolare: tra gli adulti portatori di un diabete di tipo 2 non diagnosticato il 61% è già iperteso, il 50% ipercolesterolemico e il 30% ipertrigliceridemico. Una volta diagnosticato il diabete, a seconda dei paesi il 50-74% è iperteso e il 38-60% dislipidemico [1].
■ Gestione anestesiologica del paziente diabetico Le patologie degenerative legate al diabete sono molto numerose, in particolare nel diabetico di tipo 2.
Lesioni degenerative e valutazione preoperatoria Interessamento cardiovascolare L’interessamento cardiovascolare è l’elemento più grave nel paziente diabetico ed è la causa della difficoltà della sua gestione perioperatoria.
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Lesione coronarica Lo studio Framingham ha dimostrato che il rischio di malattia coronarica è moltiplicato per due nei diabetici di sesso maschile, in confronto con una popolazione non diabetica di pari età [2]. Il rischio è moltiplicato per tre nelle donne diabetiche dopo la menopausa. Questo studio ha, per la prima volta, sottolineato la frequenza delle morti improvvise e il carattere spesso atipico della semeiotica dell’ischemia miocardica nei diabetici. Nel corso degli ultimi 20 anni innumerevoli studi epidemiologici o interventi terapeutici su grandi coorti di diabetici hanno confermato il rischio coronarico. Nel 1993 lo studio Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT) ha dimostrato che, per un periodo di follow-up di 12 anni, l’incidenza della malattia coronarica era moltiplicata per 3,2 negli uomini diabetici in confronto a uomini non diabetici strettamente appaiati. Questo studio ha anche dimostrato che il diabete di tipo 2 era un fattore di rischio coronarico fondamentale e indipendente [3]. Più recentemente, nello studio epidemiologico United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) in diabetici di tipo 2 di diagnosi recente e di entrambi i sessi, la malattia coronarica è stata identificata come la principale causa di decesso [4]. La frequenza e la prognosi favorevole della malattia coronarica sono dunque aumentate nei pazienti diabetici che giungono a un intervento chirurgico, e questo tanto più quanto essi sono anziani. Si devono sottolineare tre punti relativi alla loro gestione. Il primo si basa sullo screening in fase preoperatoria dell’ischemia miocardica silente (IMS), il secondo sul ruolo dell’angioplastica nel trattamento delle lesioni coronariche, il terzo riguarda il ruolo degli inibitori dell’enzima di conversione (ACE) dopo infarto del miocardio. Diagnosi dell’ischemia miocardica silente. Deve essere posta in un paziente che ha delle lesioni significative senza alcun sintomo clinico toracico, a riposo, sotto sforzo o al freddo, e senza cardiomiopatia o valvulopatia [5]. L’elettrocardiogramma (ECG) a riposo è normale o presenta anomalie suggestive di un’ischemia miocardica. I malati diabetici che, al freddo, si lamentano nel corso di uno sforzo di una dispnea invalidante, di palpitazioni, di un disturbo toracico, anche se questo non ha le caratteristiche abituali del dolore anginoso, non rientrano nel campo dello screening dell’IMS. In loro si sospetta subito una malattia coronarica, da confermare o escludere con una prova da sforzo. Lo screening dell’IMS deve essere effettuato per gli uomini, nei diabetici di tipo 2 seguenti: • i diabetici di età superiore ai 60 anni, arteriopatici o che hanno subito un accidente vascolare cerebrale (AVC) che ha lasciato poche sequele. In questi pazienti è diagnosticata una malattia coronarica nel 50% dei casi; • i pazienti diabetici microalbuminurici o proteinurici in cui il rischio coronario è moltiplicato per 2-3 per un periodo di dieci anni rispetto a diabetici di tipo 2 normoalbuminurici accoppiati; • i soggetti che associano fumo, ipertensione arteriosa (IA) e iperlipidemia. Nei diabetici di tipo 1 che hanno superato l’età di 40 anni e che hanno più di 15 anni di diabete lo screening dell’IMS deve essere realizzato in caso di nefropatia manifesta, di arterite degli arti inferiori o in presenza di un’intossicazione tabagica grave e di vecchia data. Per le donne di età superiore ai 65 anni lo screening dell’IMS deve essere praticato: • nelle donne che hanno avuto una menopausa precoce, senza terapia sostitutiva; • nelle donne arteritiche o che hanno subito un AVC; • nelle donne che presentano una proteinuria con o senza insufficienza renale. Per lo screening dell’ischemia miocardica silente si dispone di quattro metodi di indagine non invasiva. Questi esami devono essere prescritti solo se il paziente ha preventivamente accettato che siano realizzati una coronarografia ed eventualmente un intervento di rivascolarizzazione, in caso di un test innegabilmente positivo. La registrazione Holter su 24 ore possiede una buona specificità, ma una sensibilità molto scarsa per la diagnosi di malattia coronarica; ha poco interesse. Anestesia-Rianimazione
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L’ecocardiografia sotto stress è un esame seducente, ma la sua specificità e la sua sensibilità non sono state valutate nei pazienti diabetici. La registrazione ECG nel corso di una prova da sforzo è un esame facilmente realizzabile e ha un costo ragionevole. Possiede un eccellente valore predittivo negativo (85%) a condizione che la prova sia massimale e che sia realizzata dopo la sospensione degli anti-ischemici, in particolare i betabloccanti, da almeno 48 ore. Una prova da sforzo massimale negativa nelle condizioni citate permette in pratica di escludere la diagnosi di malattia coronarica. La scintigrafia miocardica è realizzabile solo nei centri di medicina nucleare. Le sue prestazioni sono leggermente superiori a quella della prova da sforzo. In pratica, deve essere riservata ai diabetici la cui prova da sforzo sarà impossibile o non interpretabile. La coronarografia non è un esame di screening dell’IMS, ma è indispensabile per precisare la sede, il grado e l’estensione delle stenosi coronariche quando la prova da sforzo o la scintigrafia miocardica suggeriscono un’ischemia miocardica. Questo esame è necessario per individuare i falsi positivi delle scintigrafie miocardiche, la cui percentuale è direttamente correlata all’esperienza dell’equipe che ha effettuato l’esame. La coronarografia è indispensabile anche per porre le indicazioni a una rivascolarizzazione miocardica. La coronarografia giustifica alcune precauzioni d’uso sia per quanto riguarda la prevenzione di episodi di insufficienza renale acuta iatrogena, sia per l’impiego degli antidiabetici orali (cfr. infra). Ruoli rispettivi dell’angioplastica e del by-pass aortocoronarico. In termini di riduzione di mortalità sembra che complessivamente i pazienti diabetici traggano lo stesso beneficio dei non diabetici dai by-pass aortocoronarici (in particolare dagli innesti arteriosi) e dalle dilatazioni endoluminali con posizionamento di stent (riduzione della mortalità del 44% dopo by-pass aortocoronarico) [6, 7] . I risultati preliminari ottenuti con gli stent attivi nella popolazione diabetica sono promettenti. Tuttavia, uno studio ha confrontato l’angioplastica al by-pass aortocoronarico in 2 600 diabetici che presentavano un interessamento pluritronculare [8]. Questo studio conferma l’elevata mortalità perioperatoria dopo by-pass (5%), ma mostra anche che, nei diabetici trattati con insulina, la sopravvivenza a cinque e a dieci anni è migliore dopo by-pass che dopo angioplastica. Tuttavia, nella maggior parte degli studi su diabete e chirurgia coronarica non sono stati presi in considerazione importanti fattori supplementari. Si tratta, per esempio, dell’incidenza e del grado di ipertensione arteriosa, della presenza di una disfunzione ventricolare o anche della gravità delle lesioni coronariche. È opportuno essere prudenti nella prognosi di un by-pass coronarico nel diabetico che ha una cattiva funzionalità ventricolare, poiché la mortalità, in alcuni studi, raggiunge il 10-15%. Dati dello studio GISI-3. I dati dello studio GISI-3 (lisinopril) riguardanti la riduzione della mortalità dopo infarto del miocardio appaiono estrapolabili al diabetico [9]. Lo studio del sottogruppo dei diabetici (di cui la maggior parte di tipo 2) mostra una riduzione della mortalità a sei mesi del 3,2% rispetto al gruppo placebo. Anche i risultati dello studio EUROPA suggeriscono un beneficio dell’uso di ACE-inibitori (perindopril) nel paziente diabetico coronarico stabile in termini di diminuzione degli eventi cardiovascolari maggiori [10]. Ipertensione arteriosa L’ipertensione arteriosa (definita da una pressione arteriosa ≥140/90 mmHg in almeno tre visite) ha una grande frequenza nel diabete, in particolare nel tipo 2, e colpisce il 40-60% dei pazienti. Oltre a un legame genetico forte tra diabete e ipertensione arteriosa, un certo numero di fattori o di cause può spiegare la comparsa o l’aggravamento di un’ipertensione arteriosa in un diabetico: obesità, ipersecrezione limitabile di catecolamine, nefropatie (in particolare vascolari), sindrome da apnea del sonno, fumo, alcolismo [11]. Esse rappresentano un fattore di rischio maggiore per la comparsa di una lesione coronarica e un fattore aggravante della nefropatia, della retinopatia e della cardiopatia diabetiche. Lo studio UKPDS ha Anestesia-Rianimazione
dimostrato che il livello pressorio ottimale per prevenire le complicanze micro- o macroangiopatiche o evitare la loro progressione era una pressione arteriosa inferiore a 130/ 80 mmHg [12]. Noi possiamo ragionevolmente prefiggerci il rispetto di questo obiettivo nell’intraoperatorio. È tuttavia opportuno ricordare che un abbassamento della pressione arteriosa sistolica al di sotto di 140 mmHg può essere difficile da ottenere, particolarmente nel soggetto con un interessamento vascolare evoluto (ateroma diffuso, soggetto anziano). Comunque, il controllo dell’ipertensione arteriosa è indispensabile nel preoperatorio per evitare, in associazione con una neuropatia disautonomica, un’instabilità emodinamica intraoperatoria e delle complicanze coronariche e renali. Il trattamento in prima intenzione dell’ipertensione arteriosa del diabetico si basa sulle cinque classi terapeutiche seguenti: betabloccante cardioselettivo, diuretico tiazidico, ACE-inibitore, calcioantagonista, antagonista dei recettori dell’angiotensina II (ARA II). Il più delle volte è necessaria un’associazione di antipertensivi: qualsiasi farmaco antipertensivo efficace e ben tollerato può essere utilizzato nell’iperteso diabetico. Si raccomanda di includere un diuretico tiazidico nelle associazioni [1]. Non vi sono effetti deleteri dei diuretici tiazidici sull’equilibrio glicemico dei pazienti diabetici. Patologia miocardica e insufficienza cardiaca Cardiomiopatia diabetica. Vengono descritti, nell’intraoperatorio, quadri di insufficienza cardiaca sinistra con disturbi del ritmo in assenza di qualsiasi cardiopatia ipertensiva o ischemica. La diminuzione della performance del ventricolo sinistro è conseguente a un difetto di riempimento ventricolare sinistro più che a una riduzione della contrattilità o a un aumento del postcarico. L’entità delle alterazioni della performance del ventricolo sinistro è correlata alla gravità della microangiopatia a livello della retina del paziente, nonché alla qualità dell’equilibrio glicemico [13]. Lesioni importanti al fondo dell’occhio impongono quindi la realizzazione di un’ecocardiografia Doppler prima di un intervento chirurgico maggiore o potenzialmente emorragico. Una frazione di eiezione a riposo inferiore al 35% rappresenta un fattore di rischio operatorio importante. Insufficienza cardiaca congestizia. È due volte più frequente nel diabetico di sesso maschile e cinque volte più frequente nella donna diabetica rispetto alla popolazione non diabetica, donde la necessità di una valutazione cardiologica approfondita nel preoperatorio. Gli ACE-inibitori sono le prime molecole che hanno dimostrato, in alcuni studi controllati, la capacità di ridurre la mortalità globale cardiovascolare e il rischio di comparsa di recidiva di un’insufficienza cardiaca grave nella popolazione generale di insufficienti cardiaci. L’analisi per sottogruppi ha dimostrato la loro capacità di migliorare i parametri clinici ed emodinamici nei diabetici con disfunzione sistolica, ma anche diastolica isolata o in seguito a un infarto del miocardio [14]. Lo studio DIG ha dimostrato, nella popolazione generale degli insufficienti cardiaci, una riduzione delle puntate di insufficienza cardiaca cronica nei pazienti trattati con digossina, indipendentemente dall’eziologia della cardiopatia o dal fatto che i pazienti siano in ritmo sinusale o abbiano una fibrillazione atriale [15]. Nonostante l’assenza di test controllati nell’insufficienza cardiaca, i diuretici sono utilizzati nelle puntate congestizie così come nelle fasi stabili dell’insufficienza cardiaca cronica. I diuretici dell’ansa sono i più utilizzati. In fase cronica stabile dovrà essere ricercata la più bassa dose utile. L’aggiunta di antialdosteronico sembra efficace, ma richiede una grande prudenza in caso di associazione agli ACE-inibitori. Due studi recenti hanno mostrato una riduzione della mortalità del 65% con dosi crescenti, inizialmente basse, di betabloccante.
Neuropatia sensitivomotoria I disturbi periferici (mono- o polinevriti) sono frequenti: vengono osservati nel 50% circa dei pazienti diabetici dopo 15 anni di evoluzione. La maggior parte delle lesioni neuropatiche del diabete resta asintomatica e viene semplicemente scoperta con un esame sistematico. La neuropatia diabetica, che predomina di solito agli arti inferiori, può provocare dolori notturni
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invalidanti, ma soprattutto predispone alle ulcere del piede. Le ulcere del piede espongono a un rischio elevato di amputazione, specialmente se il soggetto è affetto anche da arterite degli arti inferiori. Nel paziente diabetico il rischio di amputazione è moltiplicato di 10-15 volte. Lo screening nel preoperatorio di questa neuropatia periferica è importante a causa delle possibili implicazioni con l’anestesia locoregionale (cfr. infra).
Funzione renale L’evoluzione della nefropatia diabetica avviene in pochi anni verso l’insufficienza renale cronica, e il diabete rappresenta circa il 15% delle cause di emodialisi in Francia. I meccanismi della nefropatia diabetica di tipo 2 appaiono più complessi di quelli del diabete di tipo 1. La nefropatia del diabete di tipo 2 associa a gradi diversi: • lesioni di microangiopatia diabetica con gli stessi meccanismi della forma insulinodipendente; • un’iperfiltrazione renale legata all’obesità; • un ateroma renale favorito dalla dislipidemia, dall’ipertensione arteriosa e dal tabagismo; • una lesione interstiziale, sequela frequente di infezioni urinarie alte, a volte latenti. La velocità di evoluzione verso l’insufficienza renale terminale è identica qualunque sia il tipo di diabete [15]. Al contrario, il tabagismo è stato identificato come un fattore favorente la comparsa della nefropatia, poiché peggiora la microangiopatia renale. L’ipertensione arteriosa accompagna e aggrava la nefropatia diabetica, il cui punto di svolta evolutivo è segnato dalla comparsa di microalbuminuria (>20-200 µg min-1) [16]. A questi pazienti vengono generalmente prescritti gli ACEinibitori, in monoterapia o in associazione a un trattamento antipertensivo, anche se questo era già efficace. Gli ACEinibitori, probabilmente per un effetto di riduzione della pressione intraglomerulare, permettono di ridurre la microalbuminuria e di stabilizzare, o persino di migliorare, la funzione renale. I sartani (ARA II) sono l’oggetto di studi prospettici recenti. L’irbesartan alla dose di 300 mg riduce significativamente il rischio di comparsa di una nefropatia [17]. Questo beneficio sembra indipendente dall’effetto antipertensivo.
Figura 1. Segno della preghiera.
Ricerca di un’intubazione difficile È classico affermare che l’intubazione tracheale è dieci volte più difficile nel paziente diabetico. Queste difficoltà di intubazione sono legate a una glicosilazione proteica non enzimatica, poiché l’iperglicemia favorisce la costituzione di una rete di collagene anormalmente resistente a livello articolare. La rigidità articolare inizia e predomina alle mani. Essa colpisce dapprima, simmetricamente, le metacarpofalangee e le interfalangee prossimali dei mignoli e poi si estende alle altre dita. Si manifesta con l’impossibilità di giustapporre le facce palmari delle mani e delle articolazioni interfalangee nel «segno della preghiera» (Fig. 1). Questo segno deve essere considerato un criterio predittivo di intubazione difficile. A livello del rachide cervicale esiste una fissità dell’articolazione atlanto-occipitale e un difetto di estensione e flessione del capo sulle prime vertebre cervicali che rendono l’intubazione difficile o addirittura impossibile. Ogni tentativo di portare la testa in iperestensione provoca una curvatura anteriore della colonna cervicale e uno spostamento nella stessa direzione della laringe che riduce l’esposizione delle corde vocali (Fig. 2). Anche un’alterazione delle fibre di collagene a livello della laringe contribuisce alle difficoltà di intubazione. Tuttavia, gli studi che riportano una incidenza elevata di intubazioni difficili sono di vecchia data. Warner et al., in uno studio prospettico più recente, che includeva 725 pazienti diabetici sottoposti a intubazione per trapianti renali o pancreatici, rilevavano solo un’incidenza del 2,1% di laringoscopie difficili [19]. La cosa più importante è probabilmente ricercare i segni predittivi di intubazione difficile specifici per i pazienti diabetici, come il «segno della preghiera» o un’impronta palmare anomala; se sono presenti, il rischio di intubazione difficile è reale. Se l’esame è negativo, il miglior rapporto
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Figura 2. A livello del rachide cervicale sono presenti una fissità dell’articolazione atlanto-occipitale (A) e un difetto di estensione e di flessione del capo sulle prime vertebre cervicali, che rendono difficile o addirittura impossibile l’intubazione. Ogni tentativo di portare il capo in iperestensione provoca una curvatura anteriore della colonna cervicale (B) e uno spostamento nella stessa direzione della laringe, che riduce l’esposizione delle corde vocali [18].
sensibilità/specificità è la durata del diabete. Oltre i dieci anni il rischio di intubazione difficile è maggiore [19]. Anestesia-Rianimazione
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Complicanze degenerative e rischio operatorio
Tabella 2. Principali segni della neuropatia disautonomica diabetica. Segni cardiovascolari
Rischio infettivo Nel diabetico le infezioni rappresentano i due terzi delle complicanze postoperatorie e il 20% dei decessi nel perioperatorio [20]. I dati sperimentali suggeriscono un’origine multifattoriale nella comparsa di queste infezioni. Nei pazienti diabetici iperglicemici sono state dimostrate numerose alterazioni della funzione leucocitaria, tra cui una riduzione della chemiotassi, un’alterazione della fagocitosi e una diminuzione della capacità intracellulare di lisare stafilococchi e pneumococchi. Quando si curano i pazienti diabetici in modo da mantenere una glicemia al di sotto di 13,7 mmol l-1 (2,5 g l-1), la funzione fagocitaria dei polimorfonucleati è migliorata e la distruzione intracellulare dei batteri è riportata a un livello praticamente normale. In chirurgia pulita (classe I di Altemeier) è stato affermato da lungo tempo che i pazienti diabetici erano più soggetti alle infezioni (×5). Tuttavia, quando si tiene conto dell’età e delle malattie degenerative preesistenti, non esiste più alcuna differenza. Recentemente, in chirurgia cardiaca dopo sternotomia è stato riscontrato un tasso di infezioni della parete più elevato nei pazienti diabetici, ma l’incidenza dell’infezione è stata ridotta con un controllo rigoroso della glicemia [21] . L’apporto continuo di insulina mediante pompa sembra più efficace di un apporto discontinuo. Poiché l’infezione urinaria è quella più frequentemente riscontrata, la prescrizione di un esame citobatteriologico urinario (CBU) in fase preoperatoria deve essere ampia e obbligatoria in presenza di una vescica disautonomica. Si deve sempre riflettere circa l’opportunità di un cateterismo vescicale e la ricerca di un globo vescicale deve essere sistematica nel postoperatorio. Non si deve prevedere alcuna profilassi intraoperatoria per il solo diabete al di fuori delle indicazioni riconosciute; si deve poter ridurre il tasso di infezioni nosocomiali grazie a uno sviluppo più ampio dell’anestesia ambulatoriale nei pazienti diabetici [22].
Rischio respiratorio postoperatorio Il diabete è un fattore di rischio per la comparsa di complicanze respiratorie nel postoperatorio immediato. Sembra che alcuni diabetici disautonomici abbiano una diminuzione della loro risposta ventilatoria all’ipossia e all’ipercapnia. Si è peraltro notata una riduzione, o anche l’assenza, di reattività bronchiale e del riflesso della tosse durante l’instillazione tracheale di acido citrico in questi stessi pazienti. Un certo numero delle morti improvvise di origine ipossica periodicamente segnalate in letteratura è quindi probabilmente in rapporto con gli effetti respiratori residui dell’anestesia o con rigurgiti passati inosservati a causa dell’interessamento del riflesso della tosse in questi pazienti. Ciò deve rendere prudente l’uso di analgesici morfinici nel postoperatorio per i pazienti disautonomici e impone di prevedere un attento monitoraggio durante il risveglio. Al di fuori della disautonomia, è stata descritta, in pazienti diabetici di tipo 1 e 2, una perdita delle proprietà elastiche del polmone. Si tratta essenzialmente di un’alterazione della meccanica ventilatoria con una diminuzione della capacità vitale, del volume espiratorio massimo per secondo (VEMS), nonché un disturbo della diffusione del monossido di carbonio (CO). Queste alterazioni iniziano molto precocemente nella malattia diabetica, addirittura fin dalla comparsa dei disturbi della tolleranza glicemica, e la loro evoluzione è parallela alla qualità dell’equilibrio glicemico [23]. Di solito, queste alterazioni hanno solo una ripercussione clinica minore, almeno nella misura in cui non sono associate ad altri fattori di rischio. Non è quindi escluso che, nel postoperatorio immediato, queste alterazioni, associate agli effetti residui dell’anestesia e alla ripercussione respiratoria di una chirurgia addominale o toracica, possano spiegare una più elevata frequenza di complicanze respiratorie nei pazienti diabetici. Anestesia-Rianimazione
Tachicardia sinusale Allungamento dello spazio QT Disturbi del ritmo Infarto del miocardio indolore Ipotensione arteriosa ortostatica Labilità della pressione arteriosa Morte improvvisa Segni digestivi Disfagia Nausea, vomito Diarrea notturna Incontinenza anale Segni urogenitali Disuria, pollachiuria Ritenzione acuta Incontinenza urinaria Infezioni urinarie Impotenza Segni respiratori Polmoniti a ripetizione, inalazione bronchiale Diminuzione della risposta all’ipossiemia e all’ipercapnia Diversi Alterazioni della secrezione di sudore: crisi sudoripare Ipertermia in occasione dell’esposizione al caldo Modificazioni pupillari Eliminazione dei segni clinici che accompagnano l’ipoglicemia Modificazioni della secrezione degli ormoni gastrointestinali e delle catecolamine ecc.
Rischio legato alla neuropatia disautonomica Disautonomia cardiaca La neuropatia diabetica disautonomica è presente nel 20-40% dei pazienti diabetici ospedalizzati [24] . Questa frequenza è ancora più elevata nei diabetici ipertesi (50%). Uno studio si è interessato alla morbilità e mortalità in pazienti diabetici e pazienti ipertesi non diabetici in chirurgia di elezione (al di fuori della chirurgia cardiaca). I pazienti diabetici disautonomici non hanno presentato, nell’intraoperatorio, un numero maggiore di episodi di ipotensione arteriosa o non hanno ricevuto più frequentemente farmaci vasopressori rispetto ai non diabetici o ai diabetici senza neuropatia disautonomica. Tuttavia, cinque pazienti su 74 (7%) hanno presentato un arresto cardiorespiratorio e/o sono morti nel postoperatorio. Tutti questi pazienti avevano almeno due esami del sistema nervoso autonomo anomali e precedenti di infarto miocardico o una cardiomegalia. Le cause di morti improvvise perioperatorie sono ben note in questo tipo di pazienti. Al di fuori dei disturbi respiratori descritti nel capitolo precedente, i pazienti diabetici disautonomici sono esposti alla comparsa di infarto del miocardio indolore e di alterazioni del ritmo, in particolare di fibrillazioni ventricolari (Tabella 2). Queste alterazioni del ritmo sono legate a uno squilibrio tra il sistema vagale, la cui attività è ridotta, e il sistema simpatico, la cui attività è conservata. Questo squilibrio può essere messo in evidenza da una riduzione della variabilità della frequenza cardiaca. L’intervallo QT, sotto il controllo del sistema nervoso autonomo, sembra anche un indicatore predittivo dell’instabilità miocardica perioperatoria [25]. Più recentemente, è stato dimostrato che la variabilità della lunghezza del QT (dispersione del QT) è anche correlata al rischio di aritmia ventricolare [26] e che esiste una relazione diretta tra l’entità della dispersione dei valori del QT e la comparsa di morte improvvisa. Questa dispersione è la conseguenza delle alterazioni del tono autonomo e interessa particolarmente i pazienti diabetici con insufficienza renale e
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Tabella 3. Punteggi di neuropatia disautonomica diabetica. Esame normale: 0; esame limite: 1/2; esame anormale: 1. Un esame limite per il quoziente di Valsalva è considerato anormale e deve essere conteggiato 1. Esami
Risultati
Punteggi
Diminuzione della pressione arteriosa sistemica (mmHg) in ortostatismo
≤10
0
11-29
1/2
Quoziente degli intervalli R-R durante l’ortostatismo
Aumento della pressione arteriosa diastolica (mmHg) al momento del test di prensione Aritmia respiratoria (D FC in b min-1)
Quoziente di Valsalva
≥30
1
≥1,04
0
1,01-1,03
1/2
≤1,00
1
≥16
0
11-15
1/2
≤10
1
≥15
0
11-14
1/2
≤10
1
≥1,21
0
1,11-1,20
1
≤1,10
1
Tabella 4. Relazione tra il grado di interessamento del sistema nervoso autonomo (SNA) e i punteggi della neuropatia disautonomica diabetica. Sistema nervoso autonomo
Punteggio
Normale
0 o 1/2
Alterazione precoce
1-1 1/2
Alterazione definitiva
2-3 1/2
Alterazione grave
4-5
disautonomici [26]. Se si vuole ridurre la frequenza delle morti improvvise perioperatorie, la ricerca di una neuropatia disautonomica deve essere sistematica, così come l’intensificazione del monitoraggio e una sorveglianza postoperatoria aumentata. Peraltro, alcuni studi hanno dimostrato che i pazienti diabetici disautonomici erano esposti a un rischio maggiore di instabilità pressoria perioperatoria [27, 28]. Queste alterazioni tradurrebbero la difficoltà di adattamento emodinamico del paziente disautonomico all’ipovolemia o alla somministrazione di prodotti vasoplegici o che alterano i baroriflessi. Queste alterazioni si associano a un’assenza di variazioni dei tassi circolanti di noradrenalina. Tuttavia, il recente studio di Keyl et al. appare rassicurante [29]. In pazienti diabetici, coronarici betabloccati e disautonomici, questi autori non riscontrano instabilità emodinamica nell’infraoperatorio. Occorre tuttavia notare che tali pazienti avevano una buona funzione ventricolare sinistra, non presentavano ipovolemia ed erano stati narcotizzati con etomidato. Più recentemente, è stato dimostrato che la disautonomia cardiaca espone al rischio di ipotermia nell’intraoperatorio [30]. L’ipotermia si instaura per durate di anestesia superiori a due ore e sarebbe in rapporto con alterazioni della vasocostrizione periferica. I segni clinici che permettono di evocare una neuropatia disautonomica e i test che permettono di diagnosticarla sono descritti nelle Tabelle 3 e 4. Gastroparesi diabetica L’interessamento disautonomico gastrico, spesso associato ad alterazioni della motilità esofagea con riduzione del tono dello sfintere esofageo inferiore, aumenterebbe il rischio potenziale di rigurgito all’induzione e nel postoperatorio. La diagnosi è essenzialmente clinica e deve essere sospettata in presenza di dolori postprandiali, di nausea o vomito, di una distensione epigastrica ecc. La fisiopatologia della gastroparesi è complessa. È certamente dovuta a un interessamento del parasimpatico e le manifestazioni cliniche sono piuttosto simili a quelle osservate dopo una vagotomia, ma intervengono anche le alterazioni di ormoni come la motilina. L’eritromicina, che possiede un
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effetto agonista della motilina, permette di restaurare un’attività motoria gastrica e di svuotare questi grossi stomaci disautonomici in due ore (200 mg e.v., due ore prima dell’induzione dell’anestesia).
Rischio renale perioperatorio Il diabetico è particolarmente sensibile al rischio di insufficienza renale acuta (IRA) nel periodo operatorio. Questo si osserva, per esempio, dopo chirurgia valvolare o by-pass aortocoronarico [31]. Questa IRA può anche complicare un’iperglicemia nel contesto di una chirurgia maggiore, responsabile di un’ipovolemia con diuresi osmotica, o la somministrazione di iodio in occasione di un esame arteriografico preoperatorio. Quanto ai pazienti diabetici sottoposti a trapianto renale, la prognosi postoperatoria immediata non è diversa da quella dei pazienti non diabetici, che si tratti della percentuale di complicanze, di decessi o di rigetto del trapianto. Al contrario, a distanza la mortalità, soprattutto cardiovascolare, è più elevata [32].
Rischio neurologico Ischemia cerebrale e glicemia L’iperglicemia peggiora la prognosi neurologica e riduce le possibilità di recupero dei pazienti che hanno avuto un episodio di ischemia cerebrale. L’ipotesi secondo cui il tasso di glicemia è determinante per la prognosi neurologica di un’ischemia è confermata dalla maggior parte degli studi nell’animale dopo un episodio di ischemia cerebrale globale e da una parte degli studi sull’ischemia localizzata. Una recente metanalisi ha confermato che l’iperglicemia era un fattore di prognosi sfavorevole dopo un accidente vascolare cerebrale ischemico: una glicemia compresa tra 6,1 e 7 mmol l-1 triplica il rischio di decessi a breve termine; una glicemia compresa tra 6,7 e 8 mmol l-1 è associata a un recupero funzionale più scarso [33]. Sono state avanzate diverse ipotesi: una tossicità diretta dell’iperglicemia sulle lesioni ischemiche (l’acidosi intracellulare indotta dal metabolismo anaerobico condurrebbe alla formazione di radicali liberi e a una disfunzione mitocondriale), un effetto fragilizzante dell’iperglicemia sulla barriera ematoencefalica che facilita l’infarcimento emorragico. Inoltre, l’iperglicemia potrebbe aumentare le lesioni neuronali che compaiono nel corso dell’ischemia e potrebbe associarsi a una riduzione del flusso ematico cerebrale, nonché a un aumento dell’edema e delle dimensioni dell’infarto cerebrale.
“
Iter da seguire
In pratica, sembra auspicabile la normalizzazione della glicemia nel paziente diabetico sottoposto a un intervento chirurgico a rischio di ischemia cerebrale.
Ischemia neurologica periferica e glicemia Il diabete è identificato come fattore di rischio di comparsa di una neuropatia postoperatoria indipendentemente dall’intervento o dalla tecnica anestesiologica [34]. L’iperglicemia perioperatoria sarebbe uno dei fattori in causa. È dimostrato che l’iperglicemia acuta riduce la conduzione nervosa periferica, mentre l’iperglicemia cronica si associa a una perdita delle fibre mieliniche e non mieliniche. Poiché l’interessamento delle fibre nervose è precoce nel corso della malattia diabetica, è possibile che l’iperglicemia acuta osservata nel perioperatorio smascheri e aggravi una preesistente lesione nervosa sensitiva subclinica, possibilità che è importante conoscere per non attribuire erroneamente la comparsa di lesioni neurologiche sensitive a una cattiva posizione o a una compressione in fase intraoperatoria. Anestesia-Rianimazione
Anestesia e rianimazione del paziente diabetico ¶ I – 36-650-A-10
Rischio legato alla lesione vascolare periferica I pazienti diabetici con stenosi carotidea asintomatica hanno spontaneamente un rischio elevato di infarto miocardico o di morte improvvisa, anche al di fuori di qualunque precedente di coronaropatia. Nel corso della chirurgia vascolare periferica i pazienti, diabetici o meno, sono ad alto rischio di complicanze, che sono per il 30-40% dei casi di origine cardiovascolare. Tuttavia, nello studio di Sprung et al. condotto dopo un intervento chirurgico importante (7 000 pazienti) il diabete non è identificato come fattore di rischio [35]. Analogamente, il diabete non è identificato come un fattore di rischio di accidente vascolare perioperatorio dopo endoarteriectomia carotidea. Lo studio svedese, che ha rivisto in prospettiva (2 622 pazienti) le complicanze postoperatorie dopo endoarteriectomia su dieci anni, mostra una mortalità più elevata nei diabetici a 30 gg e a un anno (3,2 vs 1,4%). Al contrario, la morbilità perioperatoria, neurologica e cardiaca, non è aumentata. Infine, sui dieci anni e malgrado i progressi medici compiuti non è stata osservata alcuna riduzione della mortalità nei diabetici, a differenza della popolazione di pazienti non diabetici, per la quale la mortalità è scesa del 50% [36].
Difetto di cicatrizzazione Da lungo tempo è stato dimostrato che la presenza di una polinevrite, di aterosclerosi e di microangiopatia può contribuire a un difetto di cicatrizzazione. Alcuni studi sperimentali suggeriscono che anche l’iperglicemia di per se stessa potrebbe causare una scarsa cicatrizzazione. Nell’animale diabetico la cicatrizzazione è ritardata, con una diminuzione della sintesi di collagene e, come corollario, una scarsa resistenza della cicatrice. Queste anomalie sono corrette con la somministrazione di insulina. L’obesità, l’insulinoresistenza, la depressione della funzione granulocitaria, ma anche l’iperglicemia, possono interferire con la sintesi di collagene e con la cicatrizzazione. È stato osservato un rallentamento dell’afflusso di granulociti e un ritardo di crescita dei neocapillari. Peraltro, la sintesi di collagene e di procollagene è diminuita a livello delle ferite in animali diabetici. La somministrazione di insulina è cruciale per lo sviluppo del granuloma infiammatorio e, secondariamente, per la crescita dei fibroblasti e la sintesi di collagene. Tuttavia, benché l’insulina sia necessaria nelle fasi precoci della reazione infiammatoria, essa non sembra più avere un effetto dopo i primi dieci giorni. Nelle ferite della cornea sono stati segnalati tassi di cicatrizzazione simili nei pazienti diabetici o non diabetici. In effetti, la cicatrizzazione delle ferite epiteliali non provoca un afflusso leucocitario, contrariamente alle ferite profonde, e il recupero dell’integrità tissutale non si basa sulla sintesi di collagene. La riparazione epiteliale non è quindi alterata nel diabetico, mentre la cicatrizzazione delle ferite profonde lo è, a causa dei problemi di sintesi di collagene e di difesa nei confronti dell’infezione. Per quanto riguarda le fratture scomposte della caviglia, la frequenza di complicanze è elevata (>40%) [37] nei diabetici (necrosi cutanea, difetto di cicatrizzazione e di consolidamento, infezione osteocutanea, persino necessità di amputazione). Queste complicanze sono significativamente più frequenti dopo trattamento chirurgico e devono portare a valutare l’eventuale astensione chirurgica nei diabetici anziani o nei diabeti evoluti.
Rischi particolari della circolazione extracorporea nei pazienti diabetici L’ipotermia e le reazioni allo stress aumentano l’insulinoresistenza e causano un’iperglicemia. Questa è esacerbata nel diabetico, e la somministrazione di insulina è poco efficace prima del riscaldamento completo. Sono state pubblicate alcune osservazioni in cui gli agenti inotropi positivi erano inefficaci, malgrado pressioni di riempimento corrette, un ritmo sinusale, emogasanalisi ed esami ematochimici normali. In tutti i casi, la glicemia era elevata e dopo somministrazione di insulina si recuperava una contrazione miocardica efficace, che autorizzava una messa in carico del cuore. Dopo la fase di circolazione extracorporea (CEC) i diabetici richiedono il ricorso agli inotropi Anestesia-Rianimazione
positivi o alla contropulsazione aortica cinque volte più spesso dei pazienti non diabetici [38]. Vi sono diversi motivi: • gli anginosi diabetici hanno lesioni coronariche più estese; • sono più esposti all’ipertensione arteriosa; • presentano più spesso una cardiomegalia, un’ipocinesia globale e precedenti di infarto miocardico. I pazienti insulinodipendenti con una lesione coronarica e una disautonomia hanno una compliance ventricolare ridotta e una pressione telediastolica del ventricolo sinistro aumentata rispetto ai soggetti di controllo accoppiati.
Ruolo dell’anestesia locoregionale La scelta del tipo di anestesia, locoregionale o generale, è ancora ampiamente dibattuta. I dati attuali sono in favore dell’anestesia locoregionale. Le ragioni sono un rischio operatorio aumentato con l’anestesia generale e il raggiungimento di un migliore equilibrio metabolico perioperatorio nei pazienti diabetici sottoposti ad anestesia locoregionale.
L’anestesia generale espone al rischio di compressioni cutanee e nervose nell’intrae nel postoperatorio immediato Come abbiamo visto in precedenza, nel perioperatorio, il paziente ha un rischio più elevato di lesioni nervose in rapporto alla lesione microvascolare e all’ipossia nervosa cronica. Il nervo ulnare a livello del gomito, il nervo mediano a livello del canale carpale e il nervo sciatico popliteo esterno sono i più esposti [34]. Uno studio effettuato a partire dai disturbi lamentati per deficit neurologico legato all’anestesia mostra che la compressione del nervo ulnare è associata nell’85% dei casi a un’anestesia generale [39]. Questi dati sono confermati dallo studio di Warner et al. sulle lesioni del nervo ulnare dopo intervento chirurgico, che è stato condotto su oltre 1 000 000 di pazienti anestetizzati [34]. Gli autori riscontrano una frequenza del diabete quattro volte più elevata che nei controlli. L’anestesia generale e la sedazione al risveglio sarebbero dei fattori predisponenti poiché ritardano la diagnosi. Comunque, per un’anestesia generale o locoregionale si presterà un’attenzione del tutto particolare durante il periodo operatorio alla protezione dei punti di appoggio.
In anestesia locoregionale l’equilibrio metabolico perioperatorio è più facile da raggiungere L’atto chirurgico rappresenta una situazione di aggressione per l’organismo. A questo stress chirurgico corrisponde una risposta neuroendocrina. L’equilibrio glicemico e metabolico perioperatorio dipende in gran parte da questa risposta. La reazione endocrino-metabolica del diabetico all’intervento chirurgico è ancora mal documentata. Gli autori riscontrano una risposta ormonale di intensità aumentata nel diabetico sottoposto a uno sforzo fisico molto intenso, paragonabile a uno stress chirurgico. Peraltro, la reazione metabolica agli ormoni di feedback è aumentata. I diabetici sviluppano un’iperglicemia cinque-sette volte superiore a quella dei soggetti non diabetici dopo somministrazione di quantità identiche di cortisolo e di adrenalina. Le tecniche di anestesia locoregionale spinale o per blocco nervoso periferico possono modulare la risposta ormonale e la secrezione residua di insulina. In caso di anestesia epidurale e per una chirurgia sotto-ombelicale, il blocco della conduzione delle varie afferenze nervose nocicettive inibisce la secrezione della maggior parte degli ormoni legati allo stress chirurgico. Enquist et al. hanno dimostrato che la secrezione delle catecolamine intra- e postoperatorie è interamente inibita quando l’anestesia epidurale raggiunge un livello T4. Per Bromage et al. la risposta corticosurrenalica è parzialmente inibita sotto anestesia epidurale per chirurgia sopraombelicale. Sul piano metabolico il vantaggio di un’anestesia peridurale è quello di bloccare la secrezione di catecolamine, blocco la cui intensità è proporzionale all’altezza del livello dell’anestesia perimidollare. Questi vantaggi perdurano durante il periodo postoperatorio, dove il proseguimento di un’analgesia perimidollare permette, anche in questo caso, di ridurre la reazione neuroendocrina, facilitando l’equilibrio glicemico e un minor catabolismo proteico.
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I – 36-650-A-10 ¶ Anestesia e rianimazione del paziente diabetico
Per quanto riguarda l’anestesia locoregionale tronculare, il suo vantaggio rispetto a un’anestesia generale è stato dimostrato nella chirurgia della cataratta in diabetici di tipo 2. Esiste un beneficio relativo a una ripresa più precoce dell’alimentazione nel postoperatorio, che permette anche un migliore equilibrio metabolico e ormonale durante questo periodo [40]. Abbiamo osservato gli stessi effetti benefici in pazienti diabetici di tipo 2 sottoposti a rachianestesia per resezione endoscopica di prostata (dati personali non pubblicati).
Non esistono lavori che abbiano dimostrato la presenza di un rischio particolare legato all’uso di una tecnica di anestesia locoregionale nel paziente diabetico Devono tuttavia essere prese alcune precauzioni, in particolare nei confronti di una neuropatia sensitivomotoria preesistente e della disautonomia diabetica. Nel contesto di una chirurgia degli arti realizzata sotto blocco plessico o tronculare deve tassativamente essere ricercata un’alterazione neurologica preesistente (paresi, parestesie dolorose, fusione muscolare) o anche, in alcuni casi, sottoposta a indagine (elettromiografia). In effetti, alcune osservazioni di complicanze neurologiche pongono la questione dell’uso di un blocco periferico in presenza di una neuropatia periferica e del suo contributo alle lesioni postoperatorie [41]. Dati ottenuti in vitro suggeriscono che nell’animale diabetico il rischio di neurotossicità degli anestetici locali è aumentato e richiede pertanto l’uso di dosi inferiori a quelle generalmente utilizzate. Tuttavia, riguardo la sensibilità dei nervi diabetici alla neurotossicità degli anestetici locali (AL) è stato detto tutto e il contrario di tutto ed è difficile imputare le alterazioni neurologiche postoperatorie alla tecnica di anestesia utilizzata piuttosto che a una causa posturale, ischemica (laccio pneumatico), infiammatoria o alla riacutizzazione di una neuropatia preesistente. Al contrario, la presenza di una neuropatia periferica può ritardare la diagnosi di complicanza nervosa, in particolare in occasione di un’infusione continua con un catetere peridurale o con un catetere periferico. È già stata segnalata una complicanza neurologica a tipo di deficit sensitivo- motorio recidivante nel diabetico. La presenza di una neuropatia dopo un’anestesia locoregionale (ALR) rappresenta quindi una controindicazione a una nuova anestesia locoregionale. Infine, in presenza di un deficit neurologico postoperatorio, è imperativo eseguire rapidamente un esame elettromiografico alla ricerca di una neuropatia preesistente. Benché le ripercussioni emodinamiche siano state segnalate unicamente durante l’anestesia generale, l’indicazione a un’anestesia spinale nei pazienti disautonomici che presentano un interessamento cardiovascolare importante deve essere discussa. Uno dei problemi principali del blocco spinale è l’ipotensione arteriosa legata alla simpatectomia. Questa ipotensione è il risultato di una venodilatazione con riduzione del ritorno venoso e di una vasodilatazione arteriosa con caduta delle resistenze periferiche. I meccanismi di compenso fanno intervenire la secrezione di catecolamine e un’attivazione delle efferenze simpatiche al di sopra del livello del blocco indotto, per realizzare una vasocostrizione. Orbene, il sistema nervoso autonomo è alterato in modo diffuso nella disautonomia diabetica. La coesistenza di una cardiomiopatia e di una disautonomia con un blocco simpatico midollare può contribuire ad aggravare un’instabilità emodinamica e a provocare un’ischemia (spesso silente), nonché disturbi del ritmo.
Come controllare la glicemia e quale deve essere il livello ottimale della glicemia nel perioperatorio? Diversi studi sperimentali dimostrano che il metabolismo del glucosio può condurre alla produzione di radicali liberi del tipo di specie reattive dell’ossigeno a partire dalla catena respiratoria mitocondriale. È stato dimostrato che monociti sottoposti a un’iperglicemia aumentano la loro produzione di radicali liberi e che questa si associa a un aumento del tumor necrosis factor a
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(TNF-a). Questi effetti sono, in parte, inibiti dalla somministrazione di antiossidanti. L’iperglicemia aumenta l’aggregazione piastrinica attraverso una produzione di anioni iperossido. Una glicemia bassa è associata a una riduzione della mortalità e della morbilità, mentre richieste insuliniche elevate sono associate a una prognosi infausta [42]. Malmberg [43] ha dimostrato l’interesse di un’insulinoterapia intensiva per controllare la glicemia nella fase acuta dell’infarto del miocardio in pazienti diabetici. L’insulinoterapia intensiva ha permesso una riduzione dell’11% della mortalità a un anno. Gli effetti benefici della somministrazione della miscela glucosio-insulina-potassio (GIK) sono conosciuti da lungo tempo, poiché i primi studi sono stati pubblicati già da 40 anni. Questi risultati sono stati confermati in una metanalisi dove veniva osservata, prima dell’area della trombolisi, una riduzione della mortalità ospedaliera del 28% nel gruppo GIK. Diaz et al., in uno studio prospettico randomizzato, hanno confermato il ruolo benefico della GIK ad alte dosi associata alla trombolisi. Per le alte dosi gli autori evidenziano una riduzione di oltre il 60% della mortalità ospedaliera, associata a una riduzione della morbilità (insufficienza cardiaca, disturbi del ritmo) [44]. È anche stato evidenziato il ruolo protettivo della GIK nella chirurgia coronarica. In uno studio di Lazar et al. i pazienti diabetici sottoposti a un by-pass coronarico traggono vantaggio dalla miscela GIK in termini di funzione cardiaca postoperatoria e di durata del ricovero [45]. Ciò si potrebbe spiegare attraverso un effetto protettivo della GIK in situazione di ischemiariperfusione a livello miocardico, dove il glucosio è il substrato metabolizzato di preferenza nelle vie della glicolisi. L’apporto di un’insulina endovenosa ad azione rapida e breve in continuo e a basse dosi rappresenta la tecnica di elezione. L’insulinoterapia sarà associata a un apporto continuo e controllato di glucosio, nella misura in cui le variazioni degli apporti glucidici sono una fonte importante di squilibrio glicemico (Tabella 5). Nel perioperatorio la clonidina somministrata come premedicazione alla dose di 4 mg kg-1 ha mostrato la sua efficacia nel migliorare l’equilibrio glicemico, riducendo al tempo stesso le richieste insuliniche [46]. Il livello ottimale di glicemia nel perioperatorio e in rianimazione dipende probabilmente dalla patologia interessata. Per pazienti diabetici senza precedenti particolari e per una chirurgia non a rischio, il mantenimento di una glicemia inferiore a 2 g l-1 è un obiettivo sufficiente. Al contrario, per i pazienti diabetici ricoverati in rianimazione o sottoposti a interventi chirurgici a rischio (chirurgia cardiaca, neurochirurgia) e per i pazienti a rischio (per esempio, presenza di una neuropatia periferica o di un’insufficienza renale moderata in un diabetico) la ricerca di una glicemia vicina a 5,5 mmol l-1 sembra migliorare la prognosi. Restano tuttavia da valutare i rischi di ipoglicemia. Nello studio di Van Den Berghe et al. le ipoglicemie sono sei volte più frequenti [42]. È stato proposto il monitoraggio continuo sottocutaneo per adattare al meglio il flusso di insulina e ridurre la frequenza degli episodi di ipoglicemia.
Nuovi trattamenti farmacologici del diabete Le nuove molecole riguardano soprattutto il trattamento del diabete di tipo 2 [1].
Glinidi: repaglinide e nateglinide La repaglinide è un derivato dell’acido carbamoilmetilbenzoico. Stimola la secrezione di insulina chiudendo i canali del potassio ATP-dipendenti della membrana della cellula b-pancreatica. Agisce su un recettore specifico, diverso da quello dei sulfamidici ipoglicemizzanti, e la sua efficacia sembra simile. La sua emivita di eliminazione è breve (1 ora) e il picco di azione è raggiunto nell’ora che segue l’assunzione. È metabolizzata dal fegato ed eliminata nella bile. La sua farmacocinetica è poco modificata dall’insufficienza renale minima o moderata. Al contrario, la sua emivita di eliminazione plasmatica è raddoppiata nell’insufficienza renale grave. Tuttavia, la repaglinide non è controindicata in caso di insufficienza renale. Gli effetti indesiderati osservati sono stati i disturbi gastrointestinali, le reazioni cutanee e le ipoglicemie. Anestesia-Rianimazione
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Tabella 5. Protocolli di insulinoterapia. Tipo 1 (diabetico insulinodipendente) e chirurgia maggiore 1. Assenza di somministrazione dell’insulina abituale il mattino dell’intervento 2. Passaggio al blocco operatorio a 8 h 3. All’arrivo al blocco operatorio: - glicemia capillare - somministrazione di glucosio con pompa (o Dial-A-Flo®) 125 ml h-1 di soluzione glucosata al 5% (G5%) - insulina ad azione rapida e breve 1 a 2 UI h-1 con siringa automatizzata (s.a.) - adattamento orario del flusso di insulina in funzione delle glicemie capillari-orarie in modo da mantenere la glicemia tra 1 g l-1 (5,5 mmol l-1) e 1,80 g l-1 (10 mmol l-1). Possibilità di utilizzo di piccoli boli di 3-5 UI in endovena diretta (e.v.d.) in caso di necessità 4. Nel postoperatorio: apporto di glucosio controllato con pompa e insulina con s.a. il cui flusso è adattato in funzione della glicemia misurata ogni due ore quindi ogni quattro ore dopo che la glicemia si è stabilizzata 5. Al momento della ripresa dell’alimentazione, passaggio all’insulina sottocutanea (s.c.) Tipo 1 e chirurgia minore 1. Ovvero ripresa del protocollo «tipo 1 e chirurgia maggiore» 2. Altra possibilità: somministrazione dell’insulina s.c. consueta (con o senza l’insulina rapida) e inizio di un’infusione di G5% (125 ml h-1) o di G10% (70 ml h-1). Ripresa dell’alimentazione orale appena possibile dopo l’atto operatorio Tipo 2 (diabetico non insulinodipendente) e chirurgia maggiore 1. Assenza di assunzione di sulfamidico ipoglicemizzante la mattina dell’intervento 2. Sospensione della metformina 48 ore prima dell’intervento 3. All’arrivo al blocco operatorio: - glicemia capillare - somministrazione di glucosio con pompa (o Dial-A-Flo®) 125 ml h-1 di G5% - insulina ad azione rapida e breve 1 a 2 UI h-1 con s.a. - adattamento orario del flusso di insulina in funzione delle glicemie capillari orarie in modo da mantenere la glicemia tra 1 g l-1 (5,5 mmol l-1) e 1,80 g l-1 (10 mmol l-1). Possibilità di utilizzo di piccoli boli di 3-5 UI e.v.d. in caso di necessità. 4. Nel postoperatorio: apporto di glucosio con pompa (G5% o G10% in funzione del volume desiderato) o: a. insulina con s.a. b. insulina s.c. ogni sei ore secondo protocollo: - glicemia capillare ≥3 g l-1 (16,5 mmol l-1) →10 UI insulina rapida s.c. - 2,5 g l-1 (13,7 mmol l-1) ≤ glicemia <3 g l-1→8 UI di insulina rapida in s.c. - 1,8 g l-1 (10 mmol l-1) ≤ glicemia <2,5 g l-1→6 UI di insulina rapida in s.c. - 1,2 g l-1 (6,5 mmol l-1) ≤ glicemia <1,8 g l-1→4 UI di insulina rapida in s.c. - glicemia <1,2 g l-1→assenza di insulina 5. Al momento della ripresa dell’alimentazione e in assenza di complicanze chirurgiche o mediche (insufficienza renale), ripresa del trattamento per via orale precedente Tipo 2 e chirurgia minore o esame radiologico con somministrazione di iodio 1. Sospensione della metformina 48 ore prima dell’intervento 2. Controllo glicemico a. Tecnica de «assenza di insulina-assenza di glucosio»= inizio di un’infusione di soluzione fisiologica e monitoraggio della glicemia capillare (mantenere glicemia <2,5 g l-1 [13,7 mmol l-1] con piccoli boli di 3-5 UI EVD) b. Assunzione del sulfamidico del mattino e glucosio in infusione (125 ml h-1 di G5%) 3. Ripresa dell’alimentazione orale il più rapidamente possibile con il trattamento abituale 4. Dopo un’arteriografia la metformina sarà ripresa solo dopo aver verificato la funzione renale Diffidare degli apporti nascosti di glucosio o precursori del glucosio: soluzioni contenenti lattato, colloidi, trasfusione sanguigna, plasma fresco ecc. UI: unità internazionali. Anestesia-Rianimazione
La nateglinide è un derivato della fenilalanina. Stimola la secrezione di insulina chiudendo i canali del potassio adenosina trifosfato (ATP)-dipendenti della membrana della cellula b-pancreatica. Agisce sul recettore dei sulfamidici ipoglicemizzanti. Viene rapidamente assorbita e la sua concentrazione plasmatica massima è raggiunta in un’ora. La sua emivita di eliminazione è di 1,5 ore. La nateglinide è metabolizzata dal fegato e la sua farmacocinetica è poco modificata nell’insufficienza renale. Espone anch’essa al rischio di ipoglicemia.
Inibitori delle alfaglucosidasi intestinali: acarbosio e miglitolo Si tratta di pseudotetrasaccaridi di origine batterica. Questi analoghi strutturali degli oligosaccaridi alimentari inibiscono in maniera competitiva e reversibile le alfaglucosidasi dell’orletto a spazzola dell’intestino tenue. L’assorbimento di glucosio dopo il pasto è così ritardato nel tempo. Non causano ipoglicemia quando vengono utilizzati da soli.
Tiazolidinedioni Il primo tiazolidinedione è stato ritirato dal mercato a causa della sua tossicità epatica. Altre due molecole sono state messe in commercio in Francia, il rosiglitazone e il pioglitazone. Queste molecole potenziano l’azione dell’insulina senza stimolarne la secrezione. Riducono l’insulinoresistenza a livello di fegato, muscolo scheletrico e tessuto adiposo. Non provocano ipoglicemie, ma potenziano l’effetto ipoglicemizzante dei sulfamidici. Favoriscono la ritenzione idrosalina e possono aggravare o scatenare un’insufficienza cardiaca. Infine, è stato recentemente segnalato qualche caso di lesione epatica.
Insulinoterapia Insuline disponibili Attualmente sono disponibili in Francia due tipi di insuline, le insuline dette «umane» (in effetti di sequenza umana perché ottenute tramite ingegneria genetica) e gli analoghi dell’insulina la cui sequenza di aminoacidi è modificata rispetto all’insulina. Si distinguono gli analoghi rapidi (lispro, aspart) e gli analoghi lenti (glargina e detemir). Insuline umane. Nel trattamento del diabete si è portati a utilizzare le insuline rapide, le insuline semi-lente (o NPH), le miscele di rapide e di semi-lente in proporzioni variabili (il numero che figura al termine del nome della specialità è la percentuale di insulina rapida della miscela). Analoghi dell’insulina. Gli analoghi rapidi (lispro e aspart) hanno ritardi (15-30 min) e durata d’azione (tre-quattro ore) più brevi delle insuline rapide. Gli analoghi lenti hanno, come differenza farmacocinetica con la NPH, una curva di insulinemia più piatta. La durata d’azione della glargina è di circa 24 ore e quella della detemir di circa 12 ore. Esistono delle miscele di analogo rapido e di semi-lento (il numero che compare al termine del nome della specialità è la percentuale di analogo rapido). Le insuline semi-lente (NPH) (sole o mescolate a un’insulina rapida o ultrarapida) si presentano sotto forma di sospensione. Le penne iniettrici devono quindi essere agitate prima dell’iniezione per uniformare la sospensione e ridurre così il rischio di variabilità farmacocinetica. Indicazioni dell’insulina nel diabete di tipo 2 Ogni anno il 5-10% dei diabetici di tipo 2 diviene insulinodipendente. L’insulinoterapia è giustificata in presenza di un fallimento della dieta associata a esercizio fisico e nel trattamento antidiabetico massimale per via orale. Al di fuori dell’insulinodipendenza, i trattamenti insulinici si instaurano in un contesto di urgenza immediata o a termine molto breve. La necessità di questa insulinoterapia deve essere rivalutata dopo l’episodio acuto. Le indicazioni indiscutibili sono: la chetosi, il coma iperosmolare e la gravidanza, se non è stato ottenuto un buon controllo glicemico con la sola dieta. Le altre situazioni che richiedono un’insulinoterapia a breve termine sono riunite nel riquadro.
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Punto importante
Situazioni che richiedono un’insulinoterapia transitoria nel diabete di tipo 2: • infezioni gravi; • presenza di una neuropatia o di un’arteriopatia complicata con squilibrio glicemico; • interventi chirurgici; • controindicazioni transitorie dei sulfamidici ipoglicemizzanti: esami radiologici che utilizzano un prodotto di contrasto iodato; • inizio di una corticoterapia; • complicanze acute vascolari che richiedono un buon controllo del diabete e controindicano i trattamenti orali (infarto miocardico, accidente vascolare cerebrale, arterite grave in fase di puntata).
Ruolo delle associazioni insulina-ipoglicemizzanti orali Si raccomanda attualmente di usare associazioni di insulina e ipoglicemizzanti orali i cui meccanismi d’azione sono differenti, per ottenere un equilibrio glicemico in condizioni di massima sicurezza. L’effetto favorevole dell’associazione insulinasulfamidici ipoglicemizzanti sembra legato soprattutto alla stimolazione della secrezione endogena di insulina: le migliori risposte sembrano ottenute nei pazienti che hanno una secrezione endogena conservata. L’effetto dell’associazione insulinametformina resta ancora da valutare. L’associazione insulinatiazolidinedione è controindicata a causa del rischio aumentato di insufficienza cardiaca.
Gestione in alcune circostanze particolari Diabetico in ambulatorio Dal momento che il diabete è ben compensato, e nel rispetto degli imperativi abituali dell’anestesia ambulatoriale, è possibile la realizzazione di interventi in ambulatorio [22]. L’iniezione di insulina o l’assunzione di sulfamidico ipoglicemizzante avverrà la mattina dell’intervento, secondo l’orario abituale, sostituendo la colazione con un apporto glucidico per via endovenosa (e.v.) di sostituzione (soluzione glucosata al 5%, 125 ml h-1) fino alla ripresa dell’alimentazione. Nel diabetico di tipo 2 ben compensato è possibile un protocollo «né insulina né glucosio» (Tabella 5). Le biguanidi saranno sospese almeno 48 ore prima dell’intervento ambulatoriale. La realizzazione dell’intervento all’inizio di un programma operatorio deve permettere l’assunzione di uno spuntino all’ora di pranzo e la dimissione del paziente alla fine del pomeriggio, dopo un ultimo controllo glicemico. La presenza di vomito o di iperglicemia rilevante sconsiglia il ritorno a casa.
Anestesia del diabetico in urgenza In urgenza il raggiungimento di un controllo glicemico veramente soddisfacente è illusorio fino a quando l’origine dello stato che motiva l’intervento non sarà stata trattata. Ci si sforzerà tuttavia di ridurre l’iperglicemia prima dell’induzione dell’anestesia con la somministrazione e.v. di boli di insulina (cinque-dieci unità internazionali [UI]), al fine di portare la glicemia al di sotto di 12 mmol l-1. L’insulina è quindi somministrata in infusione continua con siringa automatica, abbinata all’infusione continua di glucosio, con un controllo glicemico ogni 30 minuti. In parallelo si inizierà anche a correggere un’eventuale disidratazione, un’iperosmolalità o anche una chetoacidosi. Al controllo regolare della glicemia si aggiungeranno il controllo dell’osmolarità, della natriemia e della kaliemia, della creatininemia, dei lattati, la ricerca di un aumento del gap anionico e la determinazione dell’emogasanalisi. Se il paziente era trattato con metformina o se si constata una riduzione della gittata circolatoria o un’ipossia nell’intra- o
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Tabella 6. Valutazione del valore della velocità di filtrazione glomerulare secondo la formula di Cockcroft e Gault. Formula nell’uomo Per una creatininemia espressa in µmol l-1: DFG* (ml min-1)=[140-età (anni)×peso (kg)]/[creatininemia (micromol l-1)×0,81] Per una creatininemia espressa in mg l-1: DFG* (ml min-1)=[140-età (anni)×peso (kg)]/[creatininemia (mg l-1)×7,2] Formula nella donna Sottrarre il 10-15% del valore ottenuto o usare 0,85 anziché 0,81 nella formula dove la creatininemia è espressa in µmol l-1 *DFG: velocità di filtrazione glomerulare.
nel postoperatorio, saranno necessari dosaggi ripetuti della concentrazione di bicarbonati, lattati arteriosi e l’emogasanalisi.
Esami radiologici con prodotti di contrasto iodati Ogni iniezione di mezzo di contrasto iodato è, nel diabetico, una situazione a rischio di comparsa di insufficienza renale acuta iatrogena [1]. La prevenzione si basa: • sulla limitazione ai soli esami strettamente necessari; • su un’adeguata idratazione; • sull’utilizzo elettivo di mezzi di contrasto non ionici, di bassa osmolarità. Si raccomanda un controllo della creatininemia alla ricerca di un’alterazione della funzione renale dopo l’esecuzione dell’esame. Questa insufficienza renale acuta rischia di provocare, nei pazienti trattati con metformina, un’acidosi lattica la cui prognosi è gravissima. Diverse osservazioni documentate in letteratura e rilievi di farmacovigilanza hanno dimostrato la realtà di questa successione di eventi indesiderati. La metformina sarà dunque interrotta almeno 48 ore prima dell’esame. La sua reintroduzione avverrà solo dopo verifica della normalità della funzione renale alla 72a ora (Tabella 6). Allo stesso modo, un’alterazione transitoria della funzione renale può provocare un’ipoglicemia iatrogena persistente legata all’assunzione di sulfamidici ipoglicemizzanti. Questo rischio può essere prevenuto con la sospensione temporanea, il giorno dell’esame, dell’assunzione di questi farmaci e il monitoraggio ravvicinato della glicemia.
Precauzioni da prendere in occasione di una terapia cortisonica I cortisonici hanno un effetto iperglicemizzante dosedipendente, reversibile e transitorio, siano essi somministrati per via orale, endovenosa, intramuscolare o intrarticolare [1]. Il comportamento da tenere dipende dal rischio di squilibrio glicemico valutato in base a dose, durata, tipo di corticosteroide e via di somministrazione. In tutti i casi è indispensabile il rafforzamento del monitoraggio della glicemia capillare fin dall’inizio della terapia corticosteroidea. Per quanto riguarda la terapia cortisonica per via orale nei pazienti trattati con antidiabetici orali, può essere instaurata un’insulinoterapia temporanea, in funzione delle glicemie capillari. L’insulina è solitamente necessaria in caso di dosi elevate (≥1 mg kg-1 di prednisone o prednisolone). Nei pazienti già sotto insulina le dosi dovranno essere adattate e, di solito, aumentate. In tutti i casi, bisognerà tener conto del fatto che sono le glicemie di fine pomeriggio e inizio serata ad aumentare maggiormente (per una somministrazione mattutina unica), mentre la glicemia al risveglio è poco modificata. La corticoterapia per via endovenosa induce uno squilibrio glicemico rapido e importante; deve quindi essere istituita un’insulinoterapia frazionata, spesso per via endovenosa. In caso di somministrazione di corticosteroidi per via intramuscolare o intrarticolare lo squilibrio glicemico può essere prolungato fino a 6-9 settimane. I principali fattori di rischio operatorio dei diabetici che devono subire un intervento chirurgico sono quelli delle malattie associate al diabete: patologia coronarica o cardiaca, insufficienza renale, alterazione del tessuto connettivo e del Anestesia-Rianimazione
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collagene, disfunzione granulocitaria e neuropatie. È assolutamente necessario valutare e, se possibile, migliorare o correggere questi fattori nel preoperatorio. Le eventuali relazioni tra iperglicemia e complicanze postoperatorie sono tuttora discusse, ma sembra che una glicemia normale migliori la prognosi postoperatoria. Un controllo glicemico stretto è utile nei diabetici che subiscono una CEC o nel corso di un’ischemia cerebrale. Il beneficio è meno evidente per gli altri gruppi di diabetici.
H2 O
CEC
CIC
A
■ Rianimazione del diabetico Le infezioni batteriche (polmoniti comunitarie, infezioni urinarie alte ecc.) e le malattie intercorrenti gravi (insufficienza renale, infarto miocardico, accidente vascolare cerebrale, intervento in urgenza ecc.) espongono il paziente diabetico a: • uno squilibrio glicemico o, addirittura, a un’iperosmolalità (sindrome iperglicemica iperosmolare [SII]); • una chetoacidosi soprattutto nel diabetico di tipo 1; • un’acidosi lattica nei pazienti trattati o meno con metformina; • crisi ipoglicemiche nei pazienti trattati con sulfamidici e molecole simili oppure nei diabetici trattati con insulina, a causa di un’irregolarità degli apporti alimentari di glucidi o della comparsa di insufficienza renale.
Sindrome iperglicemica iperosmolare L’iperosmolarità è affermata sulla base di parametri biologici. L’iperosmolarità plasmatica si definisce come un’osmolarità plasmatica (OsmP) superiore a 300 mOsm.l-1. In effetti, è la tonicità plasmatica od osmolarità plasmatica attiva (OsmPa) a essere importante, poiché è quest’ultima che spiega i movimenti transmembranari d’acqua e dunque lo stato di idratazione cellulare. Quando è dovuta all’accumulo dell’urea, è isotonica e non ha alcuna ripercussione sull’idratazione intracellulare. Quando è dovuta all’accumulo di sostanze non diffusibili, è ipertonica. Il glucosio, in presenza di insulina, penetra nelle cellule e si comporta come una osmole inattiva. Quando esiste una carenza (assoluta o relativa) di insulina, il glucosio diventa un’osmole attiva, responsabile di un’ipertonia plasmatica. L’iperglicemia potrà quindi avere conseguenze metaboliche multiple (Fig. 3): • a livello del compartimento intracellulare (CIC) l’ipertonia plasmatica iperglicemica provoca una disidratazione intracellulare, a eccezione del fegato nel quale il glucosio penetra sempre liberamente nelle cellule [48]; • a livello del compartimento extracellulare (CEC) l’afflusso di acqua proveniente dal CIC induce un’espansione volemica e una diluizione del sodio contenuto nel settore plasmatico. Si tratta di un’iperidratazione extracellulare con «falsa iponatriemia» o iponatriemia ipertonica (Fig. 3A). Al di fuori dei pazienti con insufficienza renale cronica oligoanurica, queste alterazioni extracellulari sono transitorie e fugaci a causa della poliuria osmotica. Nella misura in cui una molecola di glucosio filtrata dal rene impegna 18 molecole di acqua, la glicosuria è responsabile di una diuresi osmotica, quindi di una disidratazione. Questa diuresi osmotica è responsabile di perdite urinarie importanti di sodio, potassio, fosforo e acqua. Queste perdite saranno tanto più importanti quanto più la velocità di filtrazione glomerulare (VFG) del paziente sarà conservata. Le perdite di sodio nella SII sono stimate in media al 25% del pool totale di sodio dell’organismo, con una natriuresi di circa 50-70 mmol l-1[48,49]. Esse provocano molto rapidamente una contrazione del CEC con ipovolemia a volte grave. Poiché le urine generate dalla poliuria osmotica sono ipotoniche, la natriemia aumenta progressivamente e si passa da una falsa iponatriemia a una natriemia normale (Fig. 3B) o anche elevata (Fig. 3C). Così, un’ipernatriemia traduce sempre un deficit idrico e una disidratazione intracellulare gravi. La deplezione di potassio è costante. Essa dipende dalle perdite urinarie di potassio indotte dalla poliuria osmotica e dall’iperaldosteronismo secondario all’ipovolemia. La kaliemia Anestesia-Rianimazione
H2 O
CEC
CIC
MC H2 O Na
B H2 O CIC
CEC
MC H2 O Na
C Na+
+
K
Glucosio extracellulare
Figura 3. Conseguenze dell’iperglicemia sui movimenti idroelettrolitici [47]. A. Ipertonia plasmatica con iperglicemia che porta a una disidratazione intracellulare e a un’espansione volemica responsabile di una «falsa iponatriemia» (diluizione del sodio del compartimento extracellulare [CEC] da parte dell’acqua proveniente dal compartimento intracellulare [CIC]). B, C. Diuresi osmotica indotta dall’iperglicemia responsabile di una disidratazione globale. Quando la poliuria osmotica è moderata, la disidratazione extracellulare (o ipovolemia) resta anch’essa moderata e la natriemia si normalizza (B). Quando la poliuria osmotica è importante, la disidratazione extracellulare (o ipovolemia) diviene importante e la natriemia è elevata (C). MC: membrana cellulare.
iniziale maschera o sottostima la deplezione di potassio. L’iperkaliemia o la normokaliemia, spesso osservate all’inizio, testimoniano la fuoriuscita del potassio dal CIC in rapporto alla carenza insulinica. Poiché il cervello è contenuto in una scatola rigida inestensibile, le modificazioni improvvise del suo volume sono estremamente mal tollerate. Il cervello possiede un mezzo per combatterle, detto «osmoregolazione cerebrale», che gli permette di ridurre al minimo le sue modificazioni di volume indotte da variazioni della tonicità plasmatica. L’osmoregolazione cerebrale fa ricorso a una modulazione del contenuto intracerebrale di sostanze osmotiche attive chiamate «molecole osmoprotettrici». Sono inorganiche (elettroliti) e organiche (osmoli idiogeniche composte da aminoacidi, polioli e trietilamine). In situazione di ipertonia plasmatica, il contenuto intracerebrale di osmoli attive aumenta di modo che il gradiente osmotico transmembranario decresce. Così, la disidratazione cerebrale che dovrebbe derivarne è attenuata [50, 51]. L’osmoregolazione cerebrale, in termini di mezzi e di efficacia, dipende soprattutto della rapidità di insorgenza dell’ipertonia plasmatica (Fig. 4). Se l’ipertonia si instaura improvvisamente in meno di 24 ore, l’osmoregolazione cerebrale si avvia velocemente (in meno di 15 minuti) attraverso un arricchimento di elettroliti.
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Ipertonia plasmatica
Tonicità plasmatica normale Cervello 100% acqua
acqua
Disidratazione intracerebrale
15-30 min Ipertonia plasmatica acuta
Due-tre ore
acqua NaKCI
Disidratazione intracerebrale moderata
Ipertonia plasmatica cronica
24-48 ore
98% acqua aminoacidi, polioli, trietilamine
Idratazione intracerebrale quasi normale
Figura 4. Tappe dell’osmoregolazione cerebrale in caso di ipertonia plasmatica [47]. Prima tappa: l’ipertonia plasmatica provoca nell’immediato una disidratazione intracerebrale. L’osmoregolazione cerebrale inizierà solo nei 15-30 secondi che seguono l’inizio del disturbo. Seconda tappa: l’ipertonia plasmatica acuta porta a un arricchimento intracerebrale di elettroliti, il che permette di ridurre la disidratazione intracerebrale; questo fenomeno raggiunge il massimo in due-tre ore. Terza fase: l’ipertonia plasmatica cronica porta a un arricchimento intracerebrale di osmoli idiogeniche, il che permette al cervello di ritrovare uno stato di idratazione quasi normale; questo fenomeno raggiunge il massimo in 24-48 ore.
Tuttavia, la regolazione di volume resta incompleta e moderata: la disidratazione cerebrale appare meno importante di quanto sarebbe se non esistesse l’osmoregolazione. Se l’ipertonia plasmatica si instaura lentamente in più di 48 ore, l’osmoregolazione passa principalmente attraverso un aumento del contenuto intracerebrale di osmoli idiogeniche. Questo meccanismo è più lento ma più completo del precedente e le variazioni di volume del cervello sono assai modeste.
Diagnosi di sindrome iperglicemica iperosmolare Un fattore scatenante è riscontrato in più del 60% dei casi. Le due cause più frequenti sono l’infezione, particolarmente polmonare e urinaria, e l’assenza di compliance al trattamento. Segni clinici La comparsa della SII è il più delle volte insidiosa e progressiva, il che porta a porre diagnosi tardivamente, da alcuni giorni a diverse settimane dopo l’inizio. Tipicamente, la SII si manifesta con segni aspecifici di disidratazione globale. La disidratazione intracellulare si manifesta attraverso la sete con secchezza delle mucose, la perdita di peso e i disturbi neurologici. La poliuria-polidipsia è costante, salvo in caso di insufficienza renale cronica preesistente. Si devono tuttavia notare alcune particolarità: • i disturbi neurologici: il grado di alterazione della coscienza è variabile, andando dal semplice obnubilamento al coma profondo. Per la maggioranza degli autori esiste una correlazione diretta tra il grado di ipertonia plasmatica e l’entità dei disturbi neurologici. Per uno stesso grado di iperglicemia, le manifestazioni neurologiche sono più gravi che nella chetoacidosi diabetica (KAD). Le manifestazioni convulsive sono frequenti, in quanto presenti nel 15-20% dei casi, soprattutto sotto forma focale motoria [48, 49]. Esse si caratterizzano per una frequente resistenza ai trattamenti antiepilettici classici. Possono anche essere presenti segni di localizzazione a tipo di
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emiparesi, afasia, amaurosi o del tipo di tetraplegia, ponendo un problema di diagnosi differenziale con un’eventuale patologia intercorrente come un accidente vascolare cerebrale. Complessivamente, la gravità del quadro neurologico è condizionata dall’importanza della disidratazione intracellulare, ma è anche ampiamente influenzata dalla sua rapidità di insorgenza che determina l’efficacia dell’osmoregolazione cerebrale [48, 50-52] (Fig. 4). Segni laboratoristici La conferma della diagnosi si basa sull’associazione di un’ipertonia plasmatica, cioè: (2×natriemia) (mmol l-1)+glicemia (mmol l-1) superiore a 300 mOsm l-1 e di un’iperglicemia grave senza chetosi. Nella forma classica di SII non esiste acidosi metabolica. Il pH è superiore 7,20, il contenuto in CO2 totale (CO2T=HCO3-+H2CO3+CO2 disciolto) è superiore a 15 mmol l-1 e il gap anionico plasmatico (TA= &(Na++K+)−(Cl-+HCO3-)]) è normale o discretamente elevato, inferiore a 17 mmol l -1 . Tuttavia, può essere presente un’acidosi metabolica moderata, riscontrata da alcuni addirittura nel 50% dei casi [48, 49, 53]. Essa è spesso multifattoriale, attribuita a un aumento moderato dei corpi chetonici, dei lattati o all’insufficienza renale sottostante. Un aumento evidente della pressione arteriosa (PA) deve far ricercare un’altra patologia sovrapposta, in particolare un’iperlattatemia in caso di stato di shock associato. In caso di vomito può coesistere un’alcalosi metabolica. La SII si accompagna solitamente a una disidratazione globale. La disidratazione extracellulare si traduce biologicamente in una emoconcentrazione (aumento dell’ematocrito e della protidemia), che può tuttavia essere mascherata da un riempimento vascolare. La disidratazione intracellulare è costante e il più delle volte grave. Il pool sodico è notevolmente diminuito a causa delle perdite urinarie. Tuttavia, la natriemia può evolvere in diversi modi (Fig. 3A, 3C). La combinazione ipernatriemia-iperglicemia manifesta una disidratazione intracellulare importante. In tutti i casi, solo la natriemia corretta (Na+ c), che è la natriemia che si osserverebbe se la glicemia fosse normale, permette una valutazione precisa delle perdite idriche e quindi dell’entità della disidratazione intracellulare. Questa Na + c è calcolata mediante la formula di Katz: Na+ c=Na+ (mmol l-1)+[glicemia (mmol l-1)×0,3]. La kaliemia può essere all’inizio normale, diminuita o aumentata ma, in ogni caso, il pool di potassio è ridotto. Così, anche se la kaliemia è normale o inizialmente aumentata, può comparire un’ipokaliemia grave nel corso del trattamento, se l’apporto di potassio non è stato realizzato precocemente fin dall’inizio dell’insulinoterapia. Le stesse anomalie sono presenti con il fosforo e il magnesio. L’insufficienza renale funzionale è il più delle volte responsabile di un aumento dell’urea e della creatinina plasmatica. L’aumento della protidemia e dell’ematocrito testimonia la disidratazione extracellulare. La leucocitosi non è rara, legata a un fenomeno di demarginazione o a un processo infettivo sottostante. Nelle urine è presente una forte glicosuria con o senza una chetonuria discreta. La glicosuria può essere assente in caso di insufficienza renale cronica. Non deve in ogni modo mai essere considerata uno strumento di monitoraggio della glicemia.
Complicanze Le complicanze della SII sono più spesso ascrivibili a errori terapeutici o a trattamenti mal condotti. Le due complicanze più frequenti sono le trombosi vascolari e l’edema cerebrale [49, 54]. Si tratta di trombosi venose che possono colpire tutti gli organi, in particolare il cervello (seni cavernosi); può trattarsi anche di trombosi arteriose attribuite all’ipercoagulabilità osservata nelle ipertonie plasmatiche e negli episodi ipotensivi [55]. L’edema cerebrale comparirebbe in caso di correzione troppo rapida dell’ipertonia plasmatica. La sua prevenzione passa attraverso la normalizzazione lenta della glicemia, soprattutto se sono assenti i disturbi della coscienza. Il calo troppo repentino dell’osmolarità plasmatica potrebbe condurre allo sviluppo di una mielinolisi centropontina. Anestesia-Rianimazione
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H2 O
CEC
della glicemia non è un obiettivo prioritario, poiché un trattamento precoce dell’iperglicemia prima di aver ristabilito la volemia espone alla comparsa di un collasso grave (Fig. 5).
CIC
Ripristino della volemia e dell’equilibrio idrosalino MC
Diuresi osmotica
A CEC
CIC
MC H2 O
B CIC
CEC
MC
C Insulina Na+
H2 O + glucosio +
K
Glucosio extracellulare
Glucosio intracellulare
Figura 5. Effetti dell’insulinoterapia [47]. A. Ipertonie plasmatiche, iperglicemia con disidratazione intracellulare e falsa iponatriemia. B. Poliuria osmotica in rapporto con l’iperglicemia, che peggiora la disidratazione intracellulare e porta a un’ipovolemia (disidratazione extracellulare). C. L’apporto di insulina determina l’afflusso di glucosio e di acqua (18 molecole di acqua per una molecola di glucosio) dal CEC verso il CIC, il che è all’origine di una diminuzione del CEC e di un peggioramento dell’ipovolemia. CIC: compartimento intracellulare; CEC: compartimento extracellulare; MC: membrana cellulare.
Le emorragie cerebrali tipo petecchie intraparenchimali o emorragie o ematomi subdurali sono direttamente in rapporto con il gradiente osmotico transmembranario e con la fuoriuscita di acqua dalle cellule, che causa una diminuzione delle pressioni endocraniche e lacera le pareti vascolari. Una rabdomiolisi sarebbe osservata nel 50% delle SII. Essa aumenta il rischio di insufficienza renale acuta. Il collasso e l’oliguria sono la conseguenza di un riempimento vascolare insufficiente associato a una riduzione troppo rapida della glicemia (Fig. 5). Le pneumopatie da inalazione possono svilupparsi se sono presenti dei disturbi della deglutizione. L’ipokaliemia, l’ipofosforemia e l’ipoglicemia si osservano in caso di somministrazione di insulina a forti dosi senza supplemento adeguato. L’ipofosforemia espone al rischio di insufficienza cardiaca, respiratoria e di rabdomiolisi.
Trattamento della sindrome iperglicemica iperosmolare La priorità è prima di tutto ripristinare il volume del CEC, in particolare la volemia circolante, in modo da conservare l’ossigenazione tissutale. La correzione dei deficit elettrolitici (potassio, fosforo) è altrettanto necessaria, come pure il trattamento del fattore scatenante. Al contrario, la normalizzazione Anestesia-Rianimazione
L’espansione volemica passa attraverso la correzione del deficit di sodio. La scelta del soluto e le sue modalità di somministrazione sono tuttora discusse. Alcuni [48, 56] iniziano il trattamento con soluzione salina isotonica (0,9%), 1-2 l in una-due ore, in modo da ristabilire il pool idrosodico plasmatico. Questa soluzione permette al tempo stesso l’espansione volemica e la riduzione della tonicità plasmatica poiché, in presenza di un’ipertonia plasmatica, la soluzione fisiologica allo 0,9% è ipotonica. La sostituzione con soluzione salina ipotonica allo 0,45% viene iniziata in un secondo tempo, dopo aver ristabilito una volemia soddisfacente. La somministrazione esclusiva fin dall’inizio di soluzione salina ipotonica allo 0,45% è ipotizzabile solo in caso di sovraccarico idrosalino nei pazienti che presentano un’insufficienza renale cronica oligoanurica. Altri autori realizzano l’espansione volemica con macromolecole, seguita dall’infusione di soluzione salina ipotonica. In tutti i casi la rapidità di correzione dei volumi acuti extra- e intracellulari devono essere controllate. L’adeguamento terapeutico si realizza essenzialmente in base alla risposta clinica del paziente. La quantità totale di liquido da infondere dipende dal deficit idrico totale del paziente (il più delle volte 10-15 l). La metà sarà infusa nelle prime 12 ore a una velocità di circa 500 ml h-1, il resto nelle 24-48 ore seguenti. La valutazione delle perdite idriche con formule resta imprecisa: la velocità e la quantità di perfusione del liquido ipotonico devono essere regolate sui dati clinici e laboratoristici ripetuti (inizialmente ogni due ore). Qualunque sia il protocollo terapeutico scelto, il decremento dell’osmolarità plasmatica non deve superare 5 mOsm l-1 h-1 se esistono disturbi neurologici. Deve essere ancora più lenta, di circa 2,5 mOsm l-1h-1, e più prudente nel paziente senza segni neurologici, anziano o con una patologia cardiaca sottostante [56]. La reidratazione orale non è mai sufficiente se gli squilibri idroelettrolitici sono importanti. Nei pazienti con insufficienza renale cronica la correzione dei disturbi idrosalini richiede una tecnica di dialisi extrarenale. Ripristino del pool di potassio e fosforo La reidratazione e l’insulinoterapia causano una penetrazione intracellulare di potassio che aggrava l’ipokaliemia. La somministrazione di potassio per via endovenosa deve quindi avvenire fin dall’inizio del trattamento se la kaliemia di partenza è normale o bassa e, in ogni caso, molto rapidamente non appena instaurata l’insulinoterapia. La quantità raccomandata è dell’ordine di 10-30 mmol l-1 h-1, in funzione della quantità di insulina somministrata [48, 49] . Uno dei mezzi semplici per controllare questa kaliemia è quello di mantenere nel tempo un rapporto quantità totale di potassio in mmol l-1 sulla quantità totale di insulina in UI (QK/QI) uguale a 1. Durante le prime ore il monitoraggio si basa su un controllo regolare della kaliemia e soprattutto dell’ECG. Sarà anche necessaria in un secondo tempo la somministrazione di fosforo e di magnesio, monitorando la loro concentrazione plasmatica. Insulinoterapia La sola idratazione corregge già in gran parte l’iperglicemia per mezzo della diluizione, ma anche ristabilendo la diuresi osmotica con glicosuria. Per questo motivo, la persistenza dell’iperglicemia non riflette necessariamente un’«insulinoresistenza», ma piuttosto un’alterazione della velocità di filtrazione glomerulare. L’insulinoterapia fa sempre ricorso a un’insulina ad azione breve, somministrata per via venosa con siringa automatica. Per la maggior parte dei pazienti sono raccomandate dosi modeste, iniziando con un bolo endovenoso di 0,1 a 0,2 UI kg-1 (ovvero 5-10 UI), seguito da una somministrazione continua di 3-5 UI h-1, adattata in funzione della glicemia. Questa posologia permette una discesa lenta della glicemia (5,5 mmol l-1.h-1) che mette al riparo dalla possibilità di un collasso grave, di un’ipokaliemia, di una ipofosforemia o di un edema cerebrale. L’insulinoterapia non deve essere iniziata fintanto che esiste
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Tabella 7. Circostanze di comparsa di una chetoacidosi diabetica. Carenza insulinica assoluta Chetoacidosi rivelatrice Sospensione accidentale dell’insulinoterapia (problema tecnico) Sospensione volontaria dell’insulinoterapia+++ Cause farmacologiche (pentamidina, idantoina, tacrolimus...) Carenza insulinica relativa: dose di insulina inadeguata in caso di malattia intercorrente Infezioni+++ Infarto del miocardio e accidenti vascolari Traumi Interventi chirurgici
d’acqua è in media del 5-10% del peso corporeo, ovvero circa 5-6 l per un adulto di corporatura media). La carenza insulinica e l’aumento degli ormoni di feedback agevolano la produzione di acidi grassi liberi (stimolazione della lipolisi). Captati dal fegato, questi saranno trasformati in corpi chetonici nei mitocondri. Questa chetogenesi è stimolata dal glucagone. Essa determina la sintesi di una quantità elevata di b-idrossibutirrato e acido acetoacetico (due-tre volte più di b-idrossibutirrato che di acido acetoacetico) che sono successivamente filtrati dal rene poi, in parte, escreti nelle urine. L’acetone, che ha origine dalla trasformazione non enzimatica dell’acido acetoacetico per decarbossilazione, viene eliminato per via respiratoria. La riduzione del volume plasmatico, conseguente alla disidratazione, aggrava l’accumulo di corpi chetonici plasmatici e contribuisce alla comparsa di un’acidosi.
Gravidanza non controllata Cause farmacologiche: corticosteroidi, b-mimetici
Manifestazioni cliniche [57]
Disordini endocrini: ipertiroidismo, feocromocitoma, ipercorticosurrenalismo
Tipicamente, la KAD compare in alcuni giorni, preceduta da una fase di chetosi semplice. L’esordio può essere improvviso nel bambino, nella donna incinta, nella persona anziana o durante la sospensione del funzionamento di una pompa a insulina (alcune ore) [58].
un’ipovolemia franca (Fig. 5). L’insulinoterapia deve essere precoce o usare delle dosi più importanti in situazioni particolari quali l’insufficienza renale cronica, per la quale la reidratazione è limitata, l’iperkaliemia grave o la chetoacidosi associata. La glicemia viene controllata in modo orario. Quando raggiungerà la soglia di 12-15 mmol l -1 , il flusso di insulina sarà diminuito a 2-3 UI h-1 e associato a una perfusione di soluzione glucosata al 5%. Altri trattamenti La ricerca di un fattore scatenante è essenziale al fine di iniziare una terapia specifica appropriata. È raccomandata una terapia anticoagulante o, almeno, antitrombotica.
Fase di chetosi semplice Il quadro clinico della chetosi semplice associa: • i sintomi legati all’iperglicemia, come la sindrome poliuropolidipsica, i crampi notturni, i disturbi visivi. La loro intensità è più o meno importante a seconda della durata e dell’entità dell’iperglicemia; • i sintomi legati alla chetosi: disturbi digestivi del tipo dolori addominali, nausea, anoressia; • un alito dall’odore caratteristico di acetone. In assenza di terapia precoce l’evoluzione è verso la fase di chetoacidosi. Fase di chetoacidosi
Chetoacidosi diabetica La chetoacidosi diabetica (KAD), complicanza metabolica acuta, è la conseguenza di una carenza insulinica più o meno rilevante (Tabella 7). Benché possa rivelare la malattia diabetica, essa può anche sopraggiungere in qualsiasi momento nella vita di un paziente diabetico di tipo 1, quali che siano la sua età e la durata della malattia. I diabetici di tipo 2 possono anch’essi, in alcune condizioni particolari, essere esposti al rischio di chetoacidosi, ma molto meno frequentemente [57].
Fisiopatologia [57] La KAD è un’alterazione metabolica che traduce una carenza insulinica (relativa o assoluta) che impedisce la penetrazione cellulare del glucosio, associata a un aumento degli ormoni del feedback glicemico (glucagone, catecolamine, cortisolo e ormone della crescita). Queste alterazioni si ripercuotono sui metabolismi glucidico e lipidico. La carenza insulinica favorisce uno stato catabolico con attivazione della glicogenolisi e della gluconeogenesi, con l’obiettivo di aumentare la produzione epatica di glucosio e di soddisfare così le esigenze di organi insulinoglucodipendenti. Gli ormoni del feedback hanno un’azione identica, inibendo la fruttosio 2,6 fosfatasi, enzima chiave della regolazione biochimica della glicogenolisi e della gluconeogenesi epatica. Tuttavia, l’utilizzazione periferica di glucosio non è ottimale. Le catecolamine, associate alla carenza insulinica, riducono l’utilizzo periferico del glucosio (in muscoli, fegato e tessuto adiposo) e sono ad azione lipolitica (effetto b1). Con un effetto a2, esse favoriscono la chetogenesi e inibiscono la secrezione insulinica se questa persiste. La combinazione di questi due meccanismi (aumento del flusso epatico di glucosio e riduzione dell’impiego periferico di glucosio) contribuisce ad aumentare la glicemia. Questa iperglicemia è responsabile della glicosuria fin dal momento in cui viene superata la soglia renale di glucosio, in genere di 9,9 mmol l-1 (1,80 g l-1). La glicosuria è responsabile di una diuresi osmotica, quindi di una disidratazione (la perdita
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Ai segni di chetosi semplice che aumentano si aggiungono i sintomi legati all’acidosi metabolica, realizzando così la triade iperglicemia-chetosi-acidosi: • la dispnea di tipo Kussmaul in quattro tempi (con pause inspiratorie ed espiratorie) o, più spesso, con periodi di sospensione, ampia e rumorosa. È associata a una polipnea inizialmente superiore a 20 cicli per minuto. Il monitoraggio di questa frequenza respiratoria è indispensabile nel corso della gestione terapeutica, in particolare per seguire l’evoluzione dell’acidosi. La polipnea può essere assente nei rari casi di acidosi grave, che deprime i centri respiratori; • i disturbi della coscienza: se questa complicanza metabolica acuta è comunemente denominata «coma chetoacidosico», il coma vero riguarda meno del 10% dei pazienti. Si tratta di un coma calmo, di profondità variabile, flaccido, con areflessia osteotendinea, senza segni di localizzazione all’esame neurologico. Il 20% dei pazienti ha una coscienza perfettamente normale. Il 70% rimanente si trova in genere in uno stato di stupore e più o meno obnubilato; • aumentano i segni digestivi, con nausea, vomito e dolore addominale, che possono simulare a torto un’urgenza chirurgica, soprattutto nel bambino (scomparsa di rumori idroaerei all’esame addominale) [58]. Tuttavia, in rari casi, una patologia digestiva come una pancreatite acuta può essere all’origine dello scompenso chetoacidosico. Si può anche osservare un vomito emorragico conseguente a una gastrite emorragica o a ulcere di tipo Mallory-Weiss; • la disidratazione è favorita da un compenso insufficiente della diuresi osmotica, essa stessa legata all’iperglicemia e potenzialmente aggravata dai disturbi digestivi (vomito, dolori addominali ecc.). Predomina nel compartimento extracellulare, associando plica cutanea, ipotensione arteriosa e tachicardia. Il rischio maggiore è il collasso cardiovascolare, favorito da una vasodilatazione periferica conseguente all’acidosi. Può essere associata a una disidratazione intracellulare (sete, secchezza della mucosa orale, ipotonia dei bulbi oculari). Questi pazienti disidratati sono raramente anurici (mantenimento di una diuresi osmotica). Se si osserva Anestesia-Rianimazione
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un’anuria, è opportuno ricercare una causa organica. Il trattamento della disidratazione richiede allora alcune precauzioni. Tipicamente, è presente un’ipotermia, favorita dall’acidosi e dalla vasodilatazione periferica che può nascondere una sindrome infettiva. Un’ipotermia profonda, inferiore a 35°C, manifesta spesso un’infezione grave, in genere di prognosi sfavorevole.
Esami di laboratorio
genere un’insufficienza renale funzionale. Un’iperleucocitosi da neutrofili polimorfonucleati che manifesta la disidratazione è classica nel corso della chetoacidosi, senza affermare per questo la presenza di una sindrome infettiva. Le transaminasi e le creatinfosfochinasi (CPK) sono spesso elevate, ma non hanno alcun valore diagnostico. Riguardo ai livelli di amilasemia e di lipasi, essi sono classicamente aumentati nel 16-25% dei casi di chetoacidosi, con valori a volte superiori a tre volte la norma, al di fuori di ogni contesto di pancreatite acuta [62].
Primi esami
Trattamento della chetoacidosi diabetica
In un primo tempo la realizzazione di una glicemia capillare (superiore a 14 mmol l-1 ovvero 2,55 g l-1) o di un’acetonemia capillare (superiore a 0,6 mmol l-1) e di uno striscio urinario (zucchero++++ e corpi chetonici da +++ a ++++) al letto del paziente fornisce già delle informazioni. Per quanto riguarda la chetonuria: • lo stick urinario deve essere eseguito su urine fresche; • alcuni stick urinari (Keto-Diastix®) perdono la loro affidabilità in presenza di un’alta chetonuria (reazione della glicosuria erroneamente abbassata). Alcuni autori raccomandano anche di utilizzare gli stick urinari Keto-Diabur-Test®; • la determinazione quantitativa dei corpi chetonici urinari avviene attualmente con un metodo colorimetrico semiquantitativo che utilizza il nitroprussiato. Con questo metodo è rilevato solo l’acido acetilacetico. In caso di predominanza importante del b-idrossibutirrato, che rappresenta già da solo il 75% dei corpi chetonici nel corso della chetoacidosi «classica», la reazione dello stick urinario può essere falsamente ridotta. Per evitare queste fonti di errori, sono state messe a punto delle tecniche di dosaggio rapido del b-idrossibutirrato ematico: è il caso del lettore MediSense Optium® (Abbott) che misura in modo affidabile il tasso di questo corpo chetonico sul prelievo capillare di 5 µl, in 30 secondi [59]. Questo sistema è particolarmente preciso per valori di b-idrossibutirrato che vanno da 0 a 6 mmol l-1. Nel corso della chetoacidosi la soglia ematica si pone attorno a 5 mmol l-1 e può raggiungere 30 mmol l-1 (concentrazione abituale di b-idrossibutirrato circolante <0,5 mmol l-1) [60]. La determinazione capillare dei tassi di b-idrossibutirrato permette anche una diagnosi più precoce della chetosi, poiché l’individuazione di corpi chetonici allo stick urinario avviene in modo ritardato rispetto all’individuazione plasmatica [61]. Nel corso del follow-up la chetonemia si normalizza anche più rapidamente della chetonuria. Questo dosaggio di b-idrossibutirrato sul prelievo capillare permette dunque una diagnosi più precoce della chetosi, ma anche della sua risoluzione, il che evita così di ipertrattare inutilmente i pazienti.
Il trattamento della chetoacidosi diabetica si basa sul ripristino della volemia, la correzione della carenza insulinica, dell’iperglicemia, della chetoacidosi, dei disturbi idroelettrolitici e il trattamento del fattore scatenante. Ciò giustifica un ricovero urgente per una gestione adeguata. Il riempimento vascolare ha lo scopo di compensare le perdite idriche per ripristinare la volemia. In linea generale, in assenza di patologia cardiovascolare questo riempimento si basa su una soluzione salina isotonica (0,9%) alla dose di 20 ml kg-1 la primaora (in media 1-1,5 l), quindi in ragione di 4-14 ml kg-1 h-1 (0,5-1 l) le due ore seguenti [63]. Mentre esiste un consenso sulla somministrazione di insulina rapida e.v. attraverso una pompa [64] , nessuno studio ha riscontrato alcun beneficio dell’iniezione di un bolo fin dall’inizio della presa in carico. La dose iniziale raccomandata è di 0,1 UI kg-1 h-1, ovvero circa 5-10 UI h-1. Quando la glicemia diviene inferiore a 13,7 mmol l-1 (2,50 g l-1), si inizia un’infusione di soluzione glucosata al 5%, in modo da evitare l’ipoglicemia. L’infusione di insulina ad azione rapida per via e.v. è mantenuta fino alla scomparsa dell’acetonemia. Il flusso è adattato alla glicemia, che si mantiene attorno a 11 mmol l-1 (2 g l -1 ). La somministrazione è interrotta solo dopo aver raggiunto un CO2T superiore a 18 mmol l-1, una normalizzazione della PA e una chetonuria negativa o un’acetonemia inferiore a 0,5 mmol l-1 a due riprese. La sostituzione è effettuata per via orale per l’idratazione e per via sottocutanea per l’insulina. Il rischio del trattamento della chetoacidosi è prima di tutto legato all’ipokaliemia, che si instaura molto rapidamente nelle prime ore della presa in carico e aumenta così il rischio di aritmia, di arresto cardiaco e di distress respiratorio. Le raccomandazioni attuali propongono di iniziare la correzione del deficit di potassio appena la kaliemia è inferiore a 5 mmol l-1. Il dosaggio è di 1,5-2 g di potassio per litro di liquido di reidratazione, con l’obiettivo di mantenere la kaliemia tra 4 e 5 mmol l-1[64]. Se questa è inizialmente inferiore a 3,3 mmol l-1, l’insulinoterapia viene iniziata solo dopo la correzione adeguata del deficit di potassio, che permette di ottenere una kaliemia superiore a 3,3 mmol l-1. La potenziale gravità dell’ipokaliemia impone il controllo regolare della kaliemia, ogni una-due ore per le prime cinque ore di trattamento, poi ogni quattro-sei ore, poiché il rischio è maggiore all’inizio della gestione terapeutica della chetoacidosi. In caso di kaliemia inferiore a 4 mmol l-1 il controllo del ritmo cardiaco è indispensabile. Il ricorso alle soluzioni di bicarbonato di sodio (BS) resta discusso. Gli stati di acidosi grave possono causare dei deficit multiorgano (cardiaco, epatico, cerebrale ecc.), ma l’apporto di bicarbonato accentua i rischi di aggravamento dell’ipokaliemia, espone a un’acidosi intracellulare paradossa, a un’acidificazione del liquor cefalorachidiano (LCR), a un’ipossia tissutale... Alcuni studi (retrospettivi) realizzati in casi di chetoacidosi grave (pH <7,10) non hanno riscontrato differenze nell’evoluzione dello stato di coscienza e della glicemia, che si sia fatto ricorso o meno a un trattamento con BS. Di conseguenza, si raccomanda attualmente di non usare una soluzione di bicarbonati finché il pH arterioso è superiore a 7. La maggioranza degli studi randomizzati non ha dimostrato il beneficio di un trattamento sistematico con fosfato. Il ricorso alle eparine a basso peso molecolare può essere utile nel soggetto anziano, a rischio aumentato di trombosi, soprattutto se alla chetoacidosi è associata un’iperosmolalità.
Altri esami di laboratorio [57] Il pH arterioso conferma la presenza di un’acidosi con un valore inferiore a 7,30. Il CO2 totale (CO2T) è abbassato a meno del 15 mmol l-1. Nelle forme gravi di chetoacidosi il CO2T è ancora più in basso, tipicamente inferiore a 10 mmol l-1, e il pH inferiore a 7,0. Il gap anionico è superiore a 12 mmol l -1 , indicando la presenza di corpi chetonici. La natriemia è in funzione dell’entità delle perdite idrosaline. Può essere ridotta (il più delle volte), normale o alta. L’osmolarità è spesso moderatamente aumentata tra 300 e 325 mOsm l-1 e rappresenta un fattore di gravità. Mentre la deplezione di potassio è costante, la kaliemia può essere bassa, ma il più delle volte è normale o elevata. In tutti i casi, una normokaliemia segna un deficit di potassio importante. L’elettrocardiogramma permetterà di valutare l’intensità dell’ipokalicitia (allungamento dello spazio QT, diminuzione dell’ampiezza dell’onda T e comparsa di una onde U). La fosforemia, di regola aumentata, è legata all’insulinopenia, all’acidosi metabolica, all’iperosmolarità e all’insufficienza renale funzionale. In occasione dell’instaurazione del trattamento, la fosforemia diminuisce improvvisamente a causa del trasferimento del fosforo verso la cellula. L’urea, la creatinina, i protidi e l’ematocrito rispecchiano l’intensità della disidratazione, con l’aumento dei primi due che manifesta in Anestesia-Rianimazione
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Controllo clinico e laboratoristico [57] della terapia La pressione arteriosa, le frequenze cardiaca e respiratoria, la diuresi e lo stato di coscienza sono annotati ogni 30 minuti durante la prima ora di terapia, poi ogni ora per le quattro ore seguenti, poi ogni due-quattro ore. La glicemia capillare e la chetonemia (o chetonuria) sono controllate ogni ora per adattare il flusso di insulina. Gli esami di laboratorio iniziali comportano: glicemia, elettroliti, uremia e creatininemia, emogasanalisi. Gli elettroliti sono controllati ogni ora inizialmente, poi ogni quattro ore, insieme a un controllo del CO2T, fino alla correzione della chetoacidosi.
Complicanze legate al trattamento Il deficit di potassio deve essere regolarmente valutato e corretto. L’ipoglicemia viene prevenuta mediante un controllo orario della glicemia, la somministrazione di soluzione glucosata al 5% (oppure 10%), non appena la glicemia è inferiore a 13,7 mmol l-1 (2,50 g l-1) fino alla ripresa di un’alimentazione normale. Il meccanismo dell’edema cerebrale rimane ancora discusso. L’aumento dell’osmolarità legata all’iperglicemia e all’accumulo di corpi chetonici plasmatici è responsabile di una fuoriuscita di acqua dal compartimento intracellulare verso quello extracellulare. Quando la glicemia scende troppo rapidamente (associata alla scomparsa di corpi chetonici), si osserva una rapida espansione del compartimento intracellulare responsabile dell’edema [65]. Al fine di evitare questa complicanza, si raccomanda di correggere progressivamente i deficit di acqua e sodio (per mezzo di una soluzione elettrolitica isotonica non superando 50 ml kg-1 per le quattro prime ore) [66]. Quanto alla glicemia, è indispensabile evitare una diminuzione troppo rapida. La correzione dell’ipovolemia in un paziente anziano, portatore di insufficienza cardiaca o renale, può favorire la comparsa di un sovraccarico idrosalino con edema polmonare acuto. Un’acidosi metabolica ipercloremica, senza alterazione del gap anionico, è presente inizialmente nel 10% delle chetoacidosi. È frequente nel corso del trattamento, in particolare dopo la risoluzione della chetosi e sarebbe dovuta all’infusione di soluzioni contenenti del cloro e al passaggio intracellulare del BS nel corso della correzione della chetoacidosi. La ripercussione dell’ipercloremia resta mal valutata nella pratica clinica. Si risolve spontaneamente nelle 24-48 ore che seguono la sua constatazione per aumento dell’escrezione renale degli acidi. Può essere limitata riducendo gli apporti clorati, in particolare sotto forma di cloruro di sodio [67]. L’ipofosforemia si smaschera parallelamente alla correzione dell’acidosi e alla somministrazione di insulina.
Complicanze evolutive della chetoacidosi Sono le complicanze infettive che sono tipicamente osservate dopo episodi di disidratazione (pneumopatie, infezioni urinarie, micosi ecc.). Il posizionamento sistematico di un catetere vescicale è limitato ai pazienti incontinenti o incoscienti, per i quali resta indispensabile il controllo della diuresi. La mucormicosi è un’infezione opportunistica che presenta un’affinità particolare per il tessuto cerebrale e colpisce dei pazienti immunodepressi. Nel 50-75% dei casi si tratta di pazienti che soffrono di acidosi e, in particolare, di chetoacidosi. I primi segni clinici sono rappresentati da una sinusite acuta associata a una rinorrea mucosanguinolenta e a un edema del volto [68]. L’evoluzione favorevole richiede la rapidità della diagnosi, l’instaurazione del trattamento con amfotericina B e il controllo della chetoacidosi. Le complicanze tromboemboliche possono essere prevenute dall’uso di eparina a basso peso molecolare in caso di stato venoso insoddisfacente o di iperosmolarità associata. Si può osservare vomito emorragico nel corso di una gastrite emorragica. L’incidenza della pancreatite acuta nel corso della chetoacidosi diabetica è dell’ordine del 10-15%. La diagnosi di pancreatite acuta può essere evocata quando è presente almeno uno dei
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criteri seguenti: un’iperamilasemia superiore a tre volte la norma; un’iperlipasemia superiore a tre volte la norma; un’ipertrigliceridemia superiore a 10 g l -1 . La conferma di questa diagnosi si basa sulla realizzazione di una TC addominale.
Acidosi lattica e diabete L’acidosi lattica è una delle cause più frequenti di acidosi metabolica a gap anionico elevato. L’aumento del gap anionico è spiegato dall’iperlattatemia [69, 70]. La diagnosi si basa innanzitutto sul dosaggio della lattatemia plasmatica, venosa o arteriosa, che è generalmente più bassa nel sangue venoso, sebbene questo non sia costante. Il lattato plasmatico è di solito compreso tra 0,7 e 1,3 mmol l-1. Un valore di 2 mmol l-1 a riposo è già elevato, anche se, il più delle volte, sono dei valori superiori a 2,5 o addirittura a 5 mmol l-1 a essere considerati patologici. Nei pazienti obesi e nei diabetici la lattatemia è leggermente aumentata. Questo aumento della concentrazione di lattati sarebbe dovuto a una conversione del glucosio in lattato da parte della mucosa intestinale. A causa della produzione legata al metabolismo delle emazie, il prelievo deve essere conservato in ghiaccio e centrifugato rapidamente. Si deve prestare attenzione alle sovrastime, sempre possibili in caso di grandi poliglobulie, che si tratti di emazie o di leucociti. Gli altri elementi laboratoristici fanno riferimento, tra l’altro, a pH, a CO2T, la PaO2 e la PaCO2. Si deve distinguere nel diabete tra l’acidosi lattica di causa comune, indipendente dal diabete, ma più frequente a causa della lesione microvascolare e della suscettibilità alle infezioni, e quella legata al diabete e, in particolare, alla sua terapia con biguanidi [69].
Acidosi lattica da causa generale Patogenesi [69] L’iperlattatemia corrisponde a un aumento anormale del tasso di lattato, mentre l’acidosi lattica segna l’accumulo contemporaneo di lattato e di ioni H+. La formazione di lattato (a partire dal glucosio) non è peraltro all’origine dell’acidosi. Essa non consuma né genera ioni H + e, anche se il metabolismo di una molecola di glucosio conduce alla produzione di due protoni, entrambi integrano la formazione di lattato (glucoso+2 ADp+2 fosfati inorganici→2 lattati+2 ATP). È alla degradazione dell’ATP così formato che spetta di provocare un eccesso di formazione di ioni H+. Un tale eccesso si manifesta quando un’ipossia cellulare impedisce il riciclaggio dell’ATP a partire dai suoi metaboliti, come segue: ATP→ADp+fosfato inorganico+H++energia. La produzione di lattato può anche condurre a un’acidosi metabolica attraverso il meccanismo di scambio lattato/ idrossido (OH - ). La formazione di OH - a partire dall’acqua extracellulare conduce all’ingresso di ioni OH- nella cellula e previene la riduzione del pH. Ioni H+ sono distribuiti allo stesso tempo nello spazio extracellulare, ma senza caduta del pH, in quanto l’iperventilazione reattiva esercita una compensazione sufficiente. Teoricamente, l’acidosi intracellulare dovrebbe accentuare l’eccesso di produzione di lattato, poiché il rapporto lattato/ piruvato è sotto la dipendenza del rapporto [NADH] [H+]/[NAD]. Questa influenza è tuttavia inferiore a quella esercitata negativamente sull’attività fosfofruttochinasi dall’acidosi intracellulare e che tende a proteggere dalle conseguenze dell’ipossia risparmiando il glucosio e prevenendo dunque un’iperproduzione di protoni per idrolisi dell’ATP. Inoltre, l’acidosi migliora l’estrazione dell’ossigeno, con spostamento verso destra della curva dell’ossiemoglobina. Iperlattatemia: un fenomeno di adattamento [69] Il lattato non è un rifiuto, e meno ancora è un tossico. Può essere metabolizzato e ossidato dalla maggior parte delle cellule e in modo preferenziale (anche in rapporto al glucosio) nella fase iniziale di recupero dell’ischemia cerebrale o dell’ipossia [71]. È stato anche dimostrato che la somministrazione di lattato permette di prevenire i disturbi cognitivi dell’ipoglicemia [72]. I Anestesia-Rianimazione
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Tabella 8. Classificazione delle acidosi lattiche. Tipo A (evidenza clinica di un’ipossia tissutale) Ipoperfusione regionale (ischemia mesenterica, di un arto) Ipossia grave Intossicazione da monossido di carbonio Asma grave Shock (cardiogeno, settico, ipovolemico) Tipo B (assenza di evidenza clinica di un’ipossia tissutale) B1 (acidosi lattica associata a una patologia sottostante) Diabete Epatopatia Neoplasia maligna Sepsi Feocromocitoma Deficit di tiamina B2 (acidosi lattica secondaria a un’intossicazione o a farmaci) Biguanidi Etanolo, metanolo Etilenglicole Fruttosio, sorbitolo, xilitolo Salicilati Acetaminofene Epinefrina Isotretinoina Terbutalina Cianuro Nitroprussiato di Na Isoniazide Propilene glicole B3 (acidosi lattica secondaria a un disturbo metabolico congenito) Deficit di glucosio 6-fosfatasi, fruttosio 1,6-difosfatasi, piruvato carbossilasi, piruvato deidrogenasi Difetto di fosforilazione ossidativa Altri Acidosi lattica da isomero destrogiro Ipoglicemia
meccanismi attraverso i quali il lattato potrebbe esercitare un ruolo adattativo nell’ipossia sono: • un rapporto ATP/adenosina difosfato (ADP) abbassato e una produzione aumentata di lattato, utilizzato preferenzialmente al glucosio. Quando l’ossigeno è nuovamente apportato ai tessuti, l’ossidazione del lattato in piruvato supera ancora quella del glucosio, che richiede una fosforilazione in glucosio-6-fosfato e quindi la presenza di ATP; • il lattato svolge il ruolo di navetta energetica tra i tessuti. Quando esso è escreto da un tessuto per essere ossidato da un altro, quest’ultimo «respira» per il primo. Questo fenomeno potrebbe far svolgere un ruolo di risparmio del metabolismo glucidico ad alcuni tessuti, in particolare a livello del muscolo cardiaco; • il lattato sembra in realtà rivestire un ruolo diretto sulla funzione cellulare, particolarmente sull’attività ATPasi. Complessivamente, il lattato è un substrato metabolico importante, direttamente per il suo proprio metabolismo e indirettamente per il suo effetto sul metabolismo del glucosio. Dati gli effetti protettivi dell’acidosi (fintanto che la riduzione estrema del pH non compromette la funzione miocardica), la terapia deve essere centrata sulla gestione ottimale dell’affezione causale e non sulle sue conseguenze sulla produzione di lattato. Principali cause di acidosi lattica Il criterio usato classicamente per distinguere sul piano fisiopatologico tra le diverse situazioni è la presenza o meno di un’ipossia tissutale (tipo A/tipo B) (Tabella 8). Questa distinzione è in realtà troppo caricaturale, poiché restrizione in ossigeno e fattori metabolici sono di solito associati [69]. Anestesia-Rianimazione
Acidosi lattica osservata nel quadro di un trattamento con le biguanidi La sua incidenza era elevata con la fenformina, attualmente ritirata dal mercato (0,4/1 000 pazienti/anno). Essa è molto più bassa con la metformina (0,024/1 000 pazienti/anno) ed è praticamente riscontrata solo nel quadro del mancato rispetto delle controindicazioni [73]. Il meccanismo esatto e la relazione tra dose e tossicità sono tuttora discussi. La metformina ha senza dubbio un effetto inibitore della gluconeogenesi epatica [74], ma il meccanismo esatto di azione di questo farmaco è ancora poco conosciuto. È verosimile che intervengano altre alterazioni metaboliche oltre a un sovradosaggio, come dimostrano le sequele favorevoli delle rare osservazioni di intossicazioni massive volontarie. Anomalie sottostanti possono partecipare alla costituzione dell’acidosi lattica. È stato recentemente segnalato che i pazienti portatori di diabeti di tipo 2 presentavano anomalie dell’interconversione lattatopiruvato [71]. La prognosi delle acidosi lattiche osservate nel corso dei trattamenti con le biguanidi è spesso grave (mortalità variabile dal 30 al 50%). Si tratta di pazienti che hanno il più delle volte un terreno fragile, ma l’aggressività delle misure terapeutiche adottate obbliga a interrogarsi sull’aspetto potenzialmente iatrogeno di tali terapie, in particolare il ricorso a dosi massive di soluzioni alcaline. L’analisi delle osservazioni pubblicate in letteratura mostra che queste acidosi lattiche compaiono in occasione di prescrizioni inopportune di metformina e in situazioni cliniche che controindicano normalmente il suo uso. Queste situazioni sono caratterizzate da [75]: • un prolungamento dell’emivita del farmaco legata a un’insufficienza renale organica o funzionale: insufficienza renale (flusso di filtrazione glomerulare valutato attraverso la formula di Cockcroft <60 ml min-1), insufficienza cardiaca ed epatocellulare; somministrazione di mezzi di contrasto radiologico iodati (cfr. supra); • un disturbo dell’estrazione epatica di lattati: insufficienza epatocellulare, alcolismo acuto o cronico; • una produzione esagerata di lattato: patologie respiratorie acute e croniche, acidosi metaboliche acute e croniche, shock, ipovolemia, infezioni gravi, cardiopatia ischemica evolutiva, puntate di arterite. Queste situazioni cliniche a rischio di acidosi lattica devono condurre alla sospensione della prescrizione della metformina.
Trattamento dell’acidosi lattica Il trattamento dell’acidosi lattica deve essere centrato: • sulla gestione ottimale della causa dell’acidosi lattica; • sulla conservazione o sul ripristino dello stato emodinamico e della funzione ventilatoria. Uno dei segni clinici dell’acidosi è l’iperventilazione con tachipnea, che tende a ridurre la PaCO2 e a ridurre l’acidosi per normalizzare il pH. Tuttavia, quando l’acidosi diventa troppo profonda l’esaurimento muscolare, l’aumento della produzione di e CO2 legata al lavoro ventilatorio e l’aumento dello spazio morto tendono a far risalire la PaCO2. È opportuno adattare la ventilazione alveolare alle richieste metaboliche; • l’alcalinizzazione con BS non è indicata eccetto che per pH molto bassi (pH<7) che perdurano. Graff et al. hanno mostrato, su un modello sperimentale di acidosi lattica ipossica, che il bicarbonato di sodio aggravava l’acidosi, aumentava la produzione di lattato a livello digestivo, diminuiva il pH intracellulare epatico e alterava la gittata cardiaca [76]. Gli effetti deleteri del bicarbonato di sodio sono anche descritti in clinica. Cooper et al. hanno dimostrato che l’apporto di BS nel corso di acidosi lattica non migliorava l’emodinamica e non modificava la prognosi dei pazienti [77]; • il dicloroacetato (DCA) aumenta l’attività della piruvato deidrogenasi e accelera il metabolismo dei lattati. La sua
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Tabella 9. Principali manifestazioni cliniche delle ipoglicemie. Segni minori
Segni maggiori
Segni in rapporto con la risposta catecolaminergica
Convulsioni
Sudorazione (~50%)
Disturbi sensitivi
Tremori (~30%)
Sindrome cerebellovestibolare
Pallore
Coma profondo
Puntata ipertensiva Segni neuropsichici:
Ipertonico con accentuazione dei riflessi e segni di irritazione piramidale
- visione alterata - diplopia (~30%)
Facies pletorica
- astenia intensa (~30%)
Sudorazione
Segni di neuroglicopenia
Sindrome deficitaria
- confusione (~15%) - comportamento anomalo (~10%) - parestesie (~10%) - cefalea Segni digestivi: - fame (~25%) - epigastralgie - nausea - diarrea Segni cardiovascolari: - tachicardia - extrasistolia - precordialgie
efficacia è stata documentata in diversi tipi di acidosi lattica [78, Tuttavia, anche se il DCA aumenta la clearance epatica dei lattati, non modifica l’emodinamica e la sopravvivenza dei pazienti [79]. Questa terapia può essere presa in considerazione solo come adiuvante a un trattamento sintomatico ed eziologico; • la dialisi ha il suo posto per le conseguenze dell’anuria, che sono l’ipervolemia e l’iperosmolarità. 79].
Ipoglicemie Si parla classicamente di ipoglicemie quando si associano un malessere evocatore e una glicemia inferiore o uguale a 3,3 mmol l -1 (0,6 g l -1 ). Tuttavia, la soglia di percezione dell’ipoglicemia è variabile a seconda degli individui. I segni clinici dipendono anche dalla rapidità di instaurazione e dalla durata dell’ipoglicemia. L’ipoglicemia è l’effetto secondario più grave associato all’uso di sulfamidici ipoglicemizzanti (SI) [80]. I soggetti anziani e i pazienti con insufficienza renale sono i più esposti agli accidenti ipoglicemici [81]. La comparsa di un’ipoglicemia con assenza di modulazione dell’insulinosecrezione è generalmente compensata dall’aumento degli ormoni di feedback. Tuttavia, la neuropatia vegetativa che complica un diabete di vecchia data o mal compensato si accompagna a un deficit di secrezione degli ormoni di feedback in caso di ipoglicemia. I segni adrenergici dell’ipoglicemia scompaiono e possono allora manifestarsi delle ipoglicemie gravi senza segni premonitori.
Clinica Ogni malessere in un diabetico trattato deve far sospettare un’ipoglicemia. Le manifestazioni acute sono riassunte nella Tabella 9. Le sudorazioni sono molto suggestive. Le ipoglicemie possono provocare traumi vari (cadute con fratture, accidenti della circolazione). Sono state anche coinvolte nella comparsa di morte improvvisa nei diabetici di meno di 40 anni [82]. La presenza di segni di focalizzazione non esclude l’origine ipoglicemica di un disturbo neurologico acuto. Livelli normali di emoglobina glicosilata possono essere osservati in diabetici
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che hanno ipoglicemie frequenti e ripetute. Peraltro, le ipoglicemie o, talvolta, anche la normalizzazione rapida e prolungata di un’iperglicemia cronica possono provocare delle emorragie su una retinopatia proliferativa. La comparsa di un’ipoglicemia modifica in modo duraturo (circa 24 ore) l’equilibrio glicemico [83] e altera i meccanismi fisiologici di feedback [84] per quattro-cinque giorni. A lungo termine, possono essere osservate alterazioni regionali del flusso ematico cerebrale [85]. Bisogna insistere sull’importanza del riconoscimento delle «piccole» ipoglicemie a distanza dai pasti, che si traducono con sensazione di fame o malesseri minori. Queste ipoglicemie indicano un sovradosaggio di SI che giustifica un adattamento delle dosi che va fino alla sospensione del sulfamidico e alla ricerca di interazioni farmacologiche. Le manifestazioni croniche in rapporto con delle ipoglicemie ripetute profonde si riscontrano più specificamente nei diabeti secondari a una pancreatite cronica calcifica di origine etilica quando il paziente non si è disintossicato. Esse possono portare a encefalopatia cronica con amiotrofia dei quattro arti, neuropatia periferica, pseudodemenza, sindrome parkinsoniana e, a volte, emiplegia. Al di fuori di queste situazioni estreme, molti studi sono stati dedicati alle conseguenze cognitive e comportamentali delle ipoglicemie ripetute. Le ipoglicemie si possono accompagnare a un comportamento ostile e a una tendenza depressiva secondaria [86]. Nell’adulto si sviluppa frequentemente una paura intensa dell’ipoglicemia, che conduce il paziente a non far mai scendere la sua glicemia al di sotto di una certa soglia. Questo atteggiamento può favorire l’aumento ponderale per assunzione alimentare inadeguata. A lungo termine comparirebbero a livello del cervello zone di ipoperfusione regionale.
Principali cause di ipoglicemie nei diabetici I fattori di rischio principali, validi anche per il diabete di tipo 2, sono precisati qui di seguito.
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Punto importante
I fattori di rischio principali di ipoglicemia, validi anche per il diabete di tipo 2 sono: • il grado di deficit insulinosecretorio (durata del diabete); • la presenza di precedenti di ipoglicemie gravi; • la scarsa percezione dell’ipoglicemia; • l’intensità della terapia insulinica riflessa dai tassi di emoglobina glicosilata e dai valori glicemici. Peraltro, è stata segnalata un’associazione tra il genotipo ACE DD e la frequenza delle ipoglicemie gravi.
Nella pratica, la comparsa di ipoglicemie frequenti, cioè più di tre per settimana in un diabetico ben compensato, porta a cercare fattori predisponenti. I SI sono la causa principale di ipoglicemie. L’ipoglicemia colpisce circa il 15-20% dei pazienti trattati con SI. Tra questi, i sulfamidici di emivita lunga come la clorpropamide o la carbutamide sono all’origine di ipoglicemie prolungate. I sulfamidici di seconda generazione hanno un’emivita più breve. I soggetti anziani e i pazienti con insufficienza renale sono i più esposti. Tra i farmaci suscettibili di indurre o di aumentare delle ipoglicemie si devono citare gli ACE-inibitori, a causa del loro uso particolarmente ampio nel diabetico iperteso [87] . Le ipoglicemie gravi sotto sulfamidici ipoglicemizzanti sono comunque rare, con una incidenza annuale del 2 su 10 000. Nello studio UKPDS su dieci anni lo 0,6% dei pazienti trattati Anestesia-Rianimazione
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Punto importante
Fattori che favoriscono la comparsa di ipoglicemie frequenti (più di tre a settimana in un diabetico ben compensato): • pasto o merenda insufficienti o saltati; • esercizio fisico non programmato oppure con scarso adattamento del dosaggio di insulina e degli apporti glucidici supplementari; • pasto (in particolare serale) insufficientemente glucidico, spesso per misconoscimento delle regole di equivalenza dietetica; • errori nella realizzazione dell’iniezione di insulina; • iniezione in zone di lipodistrofia; • pasti troppo ritardati rispetto all’iniezione; • schema insulinico che comporta troppa insulina rapida (non più del 50% della dose totale e, la sera, non più del 30% della dose notturna; questa regola è da modificare con l’uso degli analoghi rapidi dell’insulina); • obiettivi glicemici troppo ambiziosi rispetto alla gestione globale: il frazionamento delle iniezioni e il moltiplicarsi degli autocontrolli glicemici devono in particolare fungere da corollario; • adattamento delle dosi troppo improvviso, oppure inadeguato, con supplementi di insulina rapida intempestivi, specialmente al momento di coricarsi; • altri errori educativi: incomprensione dei sintomi, ripristino di zuccheri inadeguato o tardivo; • assunzione di farmaci che potenziano le ipoglicemie: inibitori dell’enzima di conversione, betabloccanti non cardioselettivi, in effetti raramente confermata; • molto raramente causa organica: gastroparesi, spesso accusata a torto, insufficienza ormonale, malnutrizione, insufficienza epatica, soprattutto insufficienza renale.
Punto importante
Il diabete di tipo 2 è un fattore di rischio coronarico fondamentale e indipendente. Lo screening dell’ischemia miocardica silente (IMS) deve essere effettuato nei diabetici di tipo 2 dell’età di oltre 60 anni, arteriopatici o che hanno subito un AVC; i pazienti diabetici microalbuminurici oppure proteinurici; i soggetti che associano tabagismo, IA e iperlipidemia. L’entità delle alterazioni della funzione ventricolare sinistra è correlata alla gravità della microangiopatia a livello della retina del paziente. L’intervallo QT, sotto il controllo del sistema nervoso autonomo, è un indicatore predittivo dell’instabilità miocardica perioperatoria. La variabilità della lunghezza del QT (dispersione del QT) è correlata al rischio di aritmia ventricolare nel perioperatorio. La disautonomia cardiaca espone al rischio di ipotermia nel corso dell’anestesia generale. Oltre i dieci anni di evoluzione del diabete il rischio di intubazione difficile è maggiore. Nel paziente diabetico sottoposto a intervento chirurgico a rischio di ischemia cerebrale sembra auspicabile ottenere una normalizzazione della glicemia. Nel diabetico le infezioni rappresentano i due terzi delle complicanze postoperatorie e il 20% dei decessi nel perioperatorio. I deficit neurologici legati all’anestesia sono associati nell’85% dei casi a un’anestesia generale. Si dovrà prestare un’attenzione del tutto particolare nel corso del periodo operatorio alla protezione dei punti di appoggio. La clonidina somministrata come premedicazione alla dose di 4 mg kg -1 ha mostrato la sua efficacia per migliorare l’equilibrio glicemico riducendo al tempo stesso le richieste insuliniche perioperatorie. Si raccomanda un controllo della creatininemia (in terza giornata) alla ricerca di un’alterazione della funzione renale, nei postumi di un’arteriografia. Le infezioni batteriche e le malattie intercorrenti gravi (insufficienza renale, infarto miocardico, accidente vascolare cerebrale, intervento in urgenza ecc.) espongono il paziente diabetico a uno squilibrio glicemico o, addirittura, a un’iperosmolarità (sindrome iperglicemica iperosmolare), a una chetoacidosi (soprattutto nel diabetico di tipo 1) e a un’acidosi lattica nei pazienti trattati o meno con metformina.
con sulfamidici ha presentato un’ipoglicemia grave. Al contrario, le ipoglicemie gravi sono funestate da una mortalità rilevante (5-10% [80].
Trattamento delle ipoglicemie Il trattamento comporta tre aspetti: sintomatico, eziologico e preventivo. Nei limiti del possibile, la realtà dell’ipoglicemia deve essere verificata con determinazione capillare. Questa verifica non deve ritardare il trattamento. Trattamento dell’ipoglicemia in urgenza Se la coscienza è conservata, l’apporto di carboidrati per os è il più delle volte sufficiente. Se il paziente è incosciente, la correzione dell’ipoglicemia richiede un’iniezione endovenosa di 30-50 ml di glucosata al 30%, ripetibile in caso di necessità. La sostituzione con un’infusione di soluzione glucosata al 10% si impone con i SI a lunga durata d’azione, le forme galeniche «retard» o in presenza di un’insufficienza renale. L’iniezione di glucagone richiede la presenza di riserve epatiche di glicogeno. La somministrazione di 1 mg di glucagone per via intramuscolare o sottocutanea è di utilizzo più facile per le persone vicine al paziente. L’iniezione deve essere ripetuta in caso di mancato miglioramento dei sintomi dopo un quarto d’ora. Un coma ipoglicemico richiede un monitoraggio prolungato e un paziente che vive solo deve essere ricoverato.
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Trattamento eziologico dell’ipoglicemia Si devono identificare il fattore o i fattori che hanno scatenato l’ipoglicemia. In quest’occasione deve essere rivista l’educazione del paziente. Anestesia-Rianimazione
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M. Carles, Praticien hospitalier (
[email protected]). J. Dellamonica, Interne. A. Raucoules-Aimé, Professeur des Universités, praticien hospitalier. Département d’anesthésie-réanimation, hôpital Archet 2, 151, route Saint-Antoine-Ginestière, BP 3079, 06202 Nice cedex 3, France. Ogni riferimento a questo articolo deve portare la menzione: Carles M., Dellamonica J., Raucoules-Aimé A. Anestesia e rianimazione del paziente diabetico. EMC (Elsevier Masson SAS, Paris), Anestesia-Rianimazione, 36-650-A-10, 2008.
Disponibile su www.emc-consulte.com/it Algoritmi decisionali
Anestesia-Rianimazione
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