Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni

Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni

¶ I – 36-940-A-10 Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni M. Borne, I. Vincenti-Rouquette, C. Saby, L. Raynaud, L. Brinquin L’ossigenotera...

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Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni M. Borne, I. Vincenti-Rouquette, C. Saby, L. Raynaud, L. Brinquin L’ossigenoterapia iperbarica (OTI) si definisce come «la somministrazione di ossigeno a fini terapeutici a una pressione superiore alla pressione atmosferica». Gli effetti terapeutici dell’OTI derivano da due meccanismi: da una parte, l’aumento della pressione barometrica e, dall’altra, l’aumento della pressione parziale di ossigeno. Questi effetti sono ottenuti grazie all’utilizzo di una camera iperbarica, comunemente denominata «cassone». Si tratta di una tecnica complessa e costosa, che richiede un forte investimento umano e materiale. Comporta dei rischi e può causare incidenti biochimici e biofisici, in particolare barotraumi. Le sue indicazioni sono regolarmente rivalutate in consensus conference. Quelle riconosciute durante l’ultima conferenza di questo tipo, che si è tenuta a Lille nel dicembre del 2004, sono riportate in questo testo. © 2009 Elsevier Masson SAS. Tutti i diritti riservati.

Parole chiave: Camera iperbarica; Iperbarismo; Ossigenoterapia iperbarica

Struttura dell’articolo ¶ Introduzione

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¶ Cenni storici

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¶ Basi fisiche Effetto dell’aumento della pressione barometrica Effetti dell’aumento della pressione parziale di ossigeno

2 2 2

¶ Indicazioni dell’OTI Indicazioni di tipo I Indicazioni di tipo II Indicazioni di tipo III

3 3 6 6

¶ Esecuzione pratica dell’OTI Attrezzatura Preparazione e sorveglianza di un paziente per l’OTI Tabelle terapeutiche

6 6 7 7

¶ Limiti e incidenti dell’OTI Incidenti biochimici Incidenti biofisici Incidenti dovuti al materiale

7 7 9 10

¶ Conclusioni

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■ Introduzione L’ossigenoterapia iperbarica (OTI) consiste nel far inalare ossigeno a un paziente dopo averlo posto a una pressione superiore alla pressione atmosferica, in una camera stagna, chiamata «camera iperbarica». L’inalazione di ossigeno in un ambiente iperbarico provoca un considerevole aumento della pressione parziale di ossigeno e, di conseguenza, un aumento dell’ossigeno disciolto nel plasma, secondo la legge di Henry. L’iperbarismo permette inoltre la compressione dei volumi in caso di aeroembolismo o di un incidente da decompressione, secondo la legge di Boyle e Mariotte. Iperossia e iperbaria sono i due principi terapeutici, all’origine anche di reazioni avverse. Anestesia-Rianimazione

I riferimenti in materia di indicazioni dell’OTI sono, da una parte, il consensus nordamericano dell’Undersea and Hyperbaric Medical Society (UHMS) e, dall’altra, il consensus europeo dell’European Committee of Hyperbaric Medicine (ECHM) del 2004. Le principali raccomandazioni del consensus europeo sono riportate in questo testo. Le prestazioni mediche considerate dell’OTI nelle sue differenti indicazioni sono state analizzate recentemente in Francia dalla Haute Autorité de Santé [1].

■ Cenni storici L’avventura dell’iperbarismo inizia nel 1662 con il Domicilium di Henshaw, prima camera iperbarica. Un secolo più tardi, nel 1775, Priestley scopre l’ossigeno e apre la porta all’uso dei gas a fini terapeutici. Il primo approccio scientifico della medicina iperbarica è di Paul Bert nel 1878 con l’opera La pressione barometrica, nella quale descrive gli effetti benefici e la tossicità dell’ossigeno respirato sotto alte pressioni. La prima utilizzazione realmente medica dell’OTI è quella del chirurgo francese Fontaine, che costruisce nel 1879 una sala operatoria mobile pressurizzata al fine di migliorare le prestazioni e la sicurezza dell’anestesia con protossido d’azoto [2]. La tecnica attraversa gli oceani ed è Orville J. Cunningham, professore di anestesia all’Università del Kansas, che ne diviene il principale difensore. I suoi successi terapeutici gli consentono di far costruire una grande camera di 88 piedi di lunghezza (26,75 metri) poi, a partire dal 1928, di disporre della più grande camera iperbarica mai costruita, la Steel Ball Hospital di Cleveland, sfera di acciaio di 64 piedi di diametro (19,45 metri) [3]. L’iperbarismo moderna inizia con Churchill-Davidson, Boerema nella chirurgia cardiaca e Brummelkamp nel trattamento della gangrena gassosa, rispettivamente nel 1955, nel 1956 e nel 1961 [4-6].

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L’interesse per questa tecnica non è mai diminuito. Autori come Barthélémy, Goulon, Mantz, Ohresser, Voisin, Wattel, Lareng e molti altri lavoreranno per definire scientificamente le indicazioni dell’ossigenoterapia iperbarica [7]. Questo impulso scientifico porta alla realizzazione di consensus conference. Questo testo si ispira ampiamente alle raccomandazioni della 7a riunione, che ha avuto luogo nel 2004 [8].

■ Basi fisiche Gli effetti terapeutici dell’OTI sono il risultato dell’aumento della pressione barometrica e della pressione parziale di ossigeno [9].

Effetto dell’aumento della pressione barometrica A temperatura costante, la pressione e il volume di un gas sono legati dalla legge di Boyle e Mariotte: P × V = n × R × T = costante dove P è la pressione del gas, V il volume occupato da questo gas, n il numero di molecole di gas, T la temperatura assoluta (in gradi Kelvin, K) e R la costante universale dei gas (J mol-1 1 kg ). L’unità di pressione impiegata nella medicina iperbarica è l’atmosfera assoluta (ATA) in riferimento al vuoto assoluto. La pressione atmosferica a livello del mare è uguale a 1 ATA = 1,013 bar = 760 mmHg = 101,3 kPa = 1 kg cm-2. L’aumento della pressione si ottiene con l’iniezione nella camera di un gas, o aria compressa per le camere multiposto oppure ossigeno per le monoposto. Una compressione a 2 ATA, ovvero 1 ATA al di sopra della pressione a livello del mare, corrisponde a una profondità di 10 metri in termini di immersione sottomarina. Qualsiasi variazione di pressione provoca una variazione proporzionale del volume di gas. La riduzione del volume raggiunge il 50% quando la pressione si innalza da 1 a 2 ATA; oltre è minore, per divenire trascurabile al di sopra dei 5 ATA. Questo effetto è utilizzato per la riduzione del volume delle bolle gassose nel trattamento delle embolie gassose (EG) e degli incidenti da decompressione. Viceversa, alla risalita, la pressione diminuisce e il volume di gas aumenta (50% da 2 ATA a 1 ATA). Questo effetto spiega la possibilità di avere un barotrauma polmonare o, ancora, il peggioramento di uno pneumotorace preesistente, durante la fase di decompressione.

Effetti dell’aumento della pressione parziale di ossigeno Effetto diretto sul dissolvimento dell’ossigeno L’ossigeno è trasportato dal sangue sotto due forme, combinato all’emoglobina (ossiemoglobina o HbO2) e disciolto nel plasma. In aria ambiente, in situazione normossica (FiO2 a 0,21), l’ossigenazione tissutale è essenzialmente assicurata dall’ossigeno trasportato dall’emoglobina (HbO2). La capacità di fissazione totale dell’emoglobina è di 1,34 ml di ossigeno per grammo di emoglobina. Il sangue normale contenente 15 g di emoglobina per 100 ml di sangue può trasportare a saturazione completa 20,1 ml di O2 combinato per 100 ml di sangue. La quantità di ossigeno disciolto nel sangue arterioso è invece trascurabile (0,285 ml per 100 ml di sangue). Tuttavia, il suo ruolo è essenziale negli scambi gassosi polmonari e tissutali: è sotto questa forma che esso si diffonde dal sangue ai tessuti. Secondo la legge di Henry, la quantità di O2 disciolto nel sangue è proporzionale alla sua pressione parziale (PO2). Sotto ossigeno puro (FiO2 = 1), in situazione normobarica (pressione a 1 ATA), la quantità di O2 disciolto è di 1,88 ml per 100 ml di sangue. Questa quantità raggiunge i 6,1 ml, in situazione iperbarica a una pressione di 3 ATA [10, 11] (Tabella 1). A questa pressione l’ossigeno disciolto è sufficiente ad assicurare l’ossigenazione tissutale, anche in assenza di emoglobina [13]. Il considerevole aumento della pressione parziale arteriosa di ossigeno permette anche di restituire normali pressioni tissutali di ossigeno all’interno delle aree prima ipossiche [11].

2

Tabella 1. Quantità di ossigeno disciolto in funzione della pressione parziale di ossigeno secondo Mathieu [12]. FiO2

PAO2 mmHG

HbO2 ml%

O2 disciolto ml%

Aria

1

0,21

100

19,7

0,285

OTN

1

1

673

20,1

1,88

OTI

2

1

1433

20,1

3,8

OTI

3

1

2193

20,1

6,1

FiO2: frazione inspirata di ossigeno; PAO2: pressione alveolare in ossigeno; OTN: ossigenoterapia normobarica; OTI: ossigenoterapia iperbarica.

Effetti circolatori e reologici L’importante aumento della pressione tissutale di ossigeno induce una vasocostrizione per azione diretta sui vasi, senza alcuna diminuzione della quantità di O2 rilasciata ai tessuti. Questo effetto vasocostrittore, insieme all’iperossigenazione, ha un effetto benefico: • determina una riduzione della trasudazione capillare e previene la formazione di edemi. L’edema vasogenico si riassorbe per riduzione delle pressioni dell’interstizio. Questo effetto partecipa al miglioramento del rilascio dell’O2 ai tessuti; • dipende strettamente dal livello di PO 2 nell’atmosfera perivascolare e, dunque, è presente solo nelle zone dove compare un’iperossia. Esso non esiste nelle zone che restano ipossiche o in quelle in cui la PO2 si normalizza dopo l’OTI. Questo permette una ridistribuzione vascolare delle zone normalmente vascolarizzate verso le zone ipossiche. Infine, l’OTI migliora le qualità reologiche del sangue aumentando la deformabilità eritrocitaria immediatamente durante la seduta di OTI e, in modo prolungato, dopo la seduta [14].

Effetti batteriostatici e battericidi L’azione batteriostatica e battericida dell’OTI [15] si basa sulla tossicità diretta dell’ossigeno, sul miglioramento dei mezzi di difesa dell’organismo e sul potenziamento di certi antibiotici. L’ossigeno molecolare è relativamente inerte, ma è in grado di reagire con le molecole organiche determinando la formazione di radicali liberi (anione radicale superossido, perossido di idrogeno). I batteri sprovvisti di meccanismi di difesa contro i radicali liberi sono sensibili all’aumento della pressione parziale di O2. Gli effetti batteriostatici e battericidi si basano sull’alterazione delle funzioni metaboliche e sulla lesione delle membrane cellulari da perossidazione dei lipidi membranari [16]. Il potere tossico dell’ossigeno è differente a seconda del tipo di batteri. Alcuni batteri molto sensibili sono distrutti dopo un’esposizione molto breve come alcuni batteri saprofiti del tubo digerente. Questi vengono chiamati EOS (extremely oxygen sensitive). L’intolleranza all’ossigeno dei batteri anaerobi che possono vivere solo a concentrazioni di O2 inferiori al 2% dipenderebbe dall’assenza o dall’inefficacia di certi enzimi quali la superossido dismutasi che permette la neutralizzazione dei radicali liberi. Tuttavia, l’attività dell’OTI non si limita ai batteri anaerobi, dato che la crescita di alcuni batteri aerobi può essere inibita quando la PO2 raggiunge dei valori elevati. Gli studi in vitro hanno dimostrato un effetto battericida sulle seguenti specie: Clostridium perfrigens, Clostridium novyi, Clostridium histolyticum, Clostridium tetani. Molte altre specie sono sensibili all’OTI dato che l’ossigeno è necessario al corretto svolgimento della fagocitosi dei batteri. In effetti, fin dalle prime fasi l’aumento del consumo di ossigeno da parte dei fagociti (burst oxydation) è rilevante. Pertanto, anche se la PO2 tissutale normale si avvicina a 50 mmHg, non succede altrettanto al centro del focolaio infettivo dove esiste una riduzione della perfusione locale e un aumento del consumo di ossigeno. La PO2 tissutale si abbassa e passa al di sotto di una pressione necessaria all’efficacia dei leucociti. L’ipossia locale non permette più la fagocitosi. Anestesia-Rianimazione

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In vitro, i leucociti mostrano un aumento del loro potere battericida del 40% se la PO2 tissutale passa da 40 a 150 mmHg sotto OTI. Sperimentalmente, nel cane la pressione di ossigeno al di sotto della quale il potere battericida dei polimorfonucleati è alterato è di 30-40 mmHg.

Effetti sulle sintesi cellulari In un focolaio infettivo o in una ferita esiste uno squilibrio tra il fabbisogno di ossigeno generato dalla sintesi tissutale e gli apporti ridotti dalla riduzione della perfusione locale. L’ipossia favorisce una diminuzione della proliferazione cellulare dei fibroblasti e riduce la sintesi di collagene. Nell’osso l’attività osteoclastica e osteoblastica è anch’essa diminuita. L’OTI aumenta la diffusione precapillare dell’O2 e ristabilisce una PO2 tissutale soddisfacente in queste zone mal vascolarizzate. L’aumento della PO2 tissutale migliora l’attività di sintesi dei fibroblasti, degli osteoblasti e delle cellule endoteliali facilitando così i fenomeni di riparazione del tessuto connettivo e migliorando la cicatrizzazione di ferite e fratture. Le sedute di OTI accelerano i processi di neovascolarizzazione. Tuttavia, l’ipossia è uno stimolo potente necessario alla proliferazione vascolare e alla sintesi dei precursori del collagene. È l’alternanza dell’iperossia durante la seduta di OTI e dell’ipossia nell’intervallo tra le sedute che favorirebbe l’aumento del numero e del diametro dei neovasi [17]. L’OTI è di beneficio nei processi di moltiplicazione e di sintesi cellulari, ma un’iperossia troppo rilevante può avere sperimentalmente un ruolo deleterio con la produzione di radicali liberi.

■ Indicazioni dell’OTI Sono state precisate e aggiornate in occasione della 7a consensus conference europea nella medicina iperbarica che si è tenuta a Lille nel dicembre del 2004 [8]. Il collegio giudicante ha classificato queste indicazioni secondo tre tipi: • tipo I: indicazioni fortemente raccomandate, che hanno un ruolo di rilevanza maggiore per l’evoluzione del paziente; • tipo II: indicazioni raccomandate con effetto positivo sull’evoluzione; • tipo III: indicazioni opzionali. Questa divisione in gradi è stata elaborata grazie a sei livelli di prova: • livello A: due studi concordanti di grande ampiezza, randomizzati in doppio cieco senza o con una distorsione metodologica minima; • livello B: studi in doppio cieco randomizzati, ma con una distorsione o uno studio di effettivi ridotto o uno studio isolato; • livello C: consenso di opinione di esperti; • livello D: studi non controllati senza consenso di opinione di esperti; • livello E: assenza di evidenze per un’azione benefica oppure distorsione metodologica o di interpretazione che impedisce qualsiasi conclusione; • livello F: evidenza che porta a non usare l’OTI. Nessuna indicazione di tipo I soddisfa il livello di prova A. Ci si rende conto così che, anche se le argomentazioni teoriche sono solide, gli studi sull’uomo in doppio cieco sono scarsi, in quanto è difficile simulare una compressione nella camera iperbarica.

Indicazioni di tipo I • • • • • •

Intossicazione da monossido di carbonio (CO, livello B). Incidenti da decompressione (livello C). Embolia gassosa (livello C). Infezioni gravi dei tessuti molli (livello C). Crush syndrome (livello B). Prevenzione dell’osteoradionecrosi dopo le estrazioni dentarie (livello B). • Osteoradionecrosi della mandibola (livello B). • Cistite attinica (livello B). Anestesia-Rianimazione

Le prime quattro indicazioni di tipo I richiedono la realizzazione di compressioni in urgenza. Esse spiegano la necessità per alcuni centri di ossigenoterapia iperbarica di funzionare 24 ore su 24 [18].

Intossicazione da monossido di carbonio (CO) Il CO è un gas inodore, incolore, insapore e non irritante per le vie aeree, infiammabile e potenzialmente detonante. Esso è il prodotto della combustione incompleta dei combustibili organici (idrocarburi). Tenuto conto della densità molto simile all’aria, esso si diffonde rapidamente nell’ambiente circostante. È assorbito ed eliminato per via polmonare. La sua affinità per l’emoglobina è 200-250 volte maggiore rispetto a quella dell’ossigeno. Esso forma quindi con questa la carbossiemoglobina (HbCO) incapace di trasportare ossigeno verso i tessuti, fatto responsabile dell’ipossia tissutale [19]. Inoltre, se il CO è fissato su uno dei siti di una molecola di emoglobina, esso rende questa molecola più affine per l’O2 e diminuisce la sua capacità di liberare il proprio ossigeno ai tessuti. Questo effetto spiega lo spostamento verso sinistra della curva di dissociazione dell’emoglobina durante l’intossicazione. Le altre emoproteine (mioglobina, citocromo-c-ossidasi) sono anch’esse interessate. L’interessamento della mioglobina, con la creazione di carbossimioglobina non funzionale, riduce anche il trasporto di ossigeno alle cellule muscolari e miocardiche. L’interessamento della citocromo-c-ossidasi blocca la catena respiratoria mitocondriale. Si sviluppa un metabolismo anaerobico, con la costituzione di un’acidosi lattica [20]. L’intossicazione da CO rappresenta la prima causa di mortalità per intossicazione nel mondo. In Francia si calcolano 5 0008 000 intossicazioni all’anno di cui 300-400 portano al decesso [21, 22]. Si tratta essenzialmente in Europa di intossicazioni domestiche accidentali, con un picco di frequenza in inverno per il malfunzionamento degli apparecchi che utilizzano i combustibili organici. Nell’Île-de-France i convettori a carbone nsono in causa nel 47% dei casi, gli scaldabagni a gas nel 25% e gli apparecchi per il riscaldamento nel 10%. L’incendio è responsabile solo del 3% dei casi. I gas di scappamento dei motori termici in ambienti chiusi sono responsabili di intossicazioni professionali o volontarie (suicidio). Queste ultime sono la prima causa di intossicazione da CO nel Nord America. Il CO è responsabile di un’intossicazione particolarmente insidiosa, che l’ha fatto soprannominare da parte degli autori anglosassoni silent killer, o assassino silenzioso. La sua presentazione clinica è polimorfa e varia da un momento all’altro e da un paziente all’altro. Per la grande varietà dei segni clinici, questa intossicazione è spesso misconosciuta o sottostimata (30% dei casi). I segni di esordio sono spesso discreti e non specifici (astenia, nausea, cefalea), poi si manifestano, tipicamente, disturbi visivi seguiti da un’impotenza muscolare che evolve verso un coma spesso ipertonico, con segni di irritazione piramidale. Qualsiasi coma senza cause evidenti deve fare sospettare il CO. La sintomatologia è dominata dai segni neurologici, ma nessun segno clinico è patognomonico. La diagnosi di presunzione si basa sulle circostanze di insorgenza e la diagnosi di certezza sul dosaggio della HbCO nel sangue arterioso. La HbCO espressa in percentuale di emoglobina totale è dosata di routine per spettrometria. Si parla di «intossicazione» quando la concentrazione plasmatica di HbCO è superiore al 6% nel non fumatore e al 10% nel fumatore. Comunque, bisogna anche eseguire un prelievo precoce, meglio se sul luogo dell’incidente, perché l’ossigeno normobarico inalato prima dell’arrivo in ospedale fa abbassare questo tasso. Al contrario, il tasso di HbCO non deve essere considerato un fattore di gravità; livelli molto elevati possono infatti non essere associati a una sintomatologia clinica, mentre livelli moderati possono essere associati a sintomi gravi [23]. Questa intossicazione comporta un duplice rischio: un rischio vitale immediato e un rischio di postumi neurologici secondari [24-26].

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Il rischio vitale immediato è legato: • all’intensità dell’ischemia cerebrale; • alla comparsa di manifestazioni cardiologiche: insufficienza coronarica, collasso o disturbi del ritmo che motivano un elettrocardiogramma; • alla comparsa di manifestazioni respiratorie con un rischio di edema polmonare acuto sia cardiogeno sia lesionale, da ricercare con una radiografia polmonare. Le complicanze a lungo termine sono essenzialmente neuropsichiatriche, raggruppate sotto il termine di «sindrome postintervallare». Nel 10-30% degli intossicati compare, nelle settimane che seguono l’intossicazione, una sindrome parkinsoniana, una confusione mentale, demenza, disturbi della personalità o dell’umore e disturbi della memoria più o meno marcati [27]. Il rischio di comparsa della sindrome postintervallare sembra più rilevante se esistono segni cerebellari durante il trattamento. Nei casi gravi il coma persiste. L’imaging con tomodensitometria ma, soprattutto, con risonanza magnetica (RMN) mette in evidenza una lesione dei nuclei grigi centrali. Il trattamento immediato esordisce con la fase sintomatica, vale a dire sottrazione delle vittime dall’ambiente tossico, aerazione dei locali e misure classiche di rianimazione. L’ossigeno è il trattamento specifico di riferimento riconosciuto fin dai lavori di Haldane nel 1895 [28]. Per questa intossicazione l’ossigeno è un vero e proprio antidoto. Esso permette di accelerare la dissociazione della HbCO e di lottare contro l’anossia tissutale attraverso l’aumento dell’ossigeno disciolto. Le forme minori devono beneficiare di ossigeno in maschera ad alta concentrazione e ad alto flusso per 6-12 ore. Per le forme più gravi le indicazioni dell’OTI sono state riconfermate nella consensus conference del 2004 di Lille; l’OTI è raccomandata nell’intossicazione da CO quando esiste un rischio elevato di complicanze immediate o a lungo termine. Il rischio elevato è definito da: • uno stato di incoscienza all’arrivo in ospedale o prima, cioè durante la gestione preospedaliera; • una presenza di segni neurologici, psichiatrici, cardiaci o respiratori; • una donna in gravidanza per una maggiore affinità del CO per l’emoglobina fetale e un’eliminazione ritardata dal passaggio placentare. L’interesse dell’OTI al fine di ridurre l’incidenza della sindrome postintervallare è stato riaffermato dall’equipe di Weaver nel 2002 a conclusione di uno studio randomizzato in doppio cieco su 152 intossicati. In questo studio, le sequele cognitive a 6 settimane e a 12 mesi sono significativamente meno frequenti nel gruppo OTI rispetto al gruppo ossigenoterapia normobarica [29]. Nessuno studio ha permesso di concludere per un protocollo ottimale in termini di durata della seduta e di livello di pressurizzazione. I protocolli terapeutici sono variabili da un paese all’altro. In Francia, spesso è consigliata una singola seduta di 90-120 minuti a 2,5 ATA, seguita da 6 ore di ossigenoterapia normobarica ad alto flusso. Deve essere praticata al più presto dopo l’intossicazione, idealmente entro le 6 ore. Il trasferimento verso il centro iperbarico deve essere effettuato rapidamente sotto ossigeno ad alto flusso dal luogo dell’intossicazione. Il passaggio al pronto soccorso è inutile.

Incidenti da decompressione Si producono nei subacquei professionisti o in occasione di immersioni amatoriali. Sono incidenti puramente biofisici dovuti a una sovrasaturazione dell’organismo con gas inerte durante la fase in pressione. Alla decompressione o risalita si produce la desaturazione. Il gas inerte, cioè l’azoto disciolto nei tessuti, si libera sotto forma gassosa quando la pressione diminuisce. Se la risalita (calo della pressione) è troppo rapida, si formano bolle intratissutali e intravascolari. Queste bolle

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possono essere di piccolo calibro, «microbolle», e passare inosservate o, al contrario, essere importanti e provocare un’ischemia in tessuti sensibili (cervello, cuore...) per ostruzione vascolare. Gli incidenti sono classificati in due categorie: • gli incidenti di tipo I: cutanei (prurito), articolari e muscolari (bend) o linfatici con edema parotideo o pseudoginecomastia; • gli incidenti di tipo II: neurologici con possibilità di patologie midollari, cerebrali o cocleovestibolari, e respiratori; questi ultimi sono conosciuti sotto il nome di choke. Si traducono spesso con un dolore retrosternale accompagnato da una difficoltà respiratoria progressiva e tosse. Il comportamento da seguire è stato codificato nel 1996 [30]. Gli incidenti cutanei beneficiano di un’ossigenoterapia normobarica. Gli altri incidenti sono gestiti in un servizio che possieda una camera iperbarica. La ricompressione deve essere realizzata in un arco di tempo inferiore alle 6 ore. Gli incidenti da decompressione di tipo I sono trattati con le tabelle di compressione che privilegiano l’ossigeno, senza superare 2,8 ATA. Le tabelle US Navy sono le più utilizzate: l’US Navy 5 per i bend a evoluzione favorevole e l’US Navy 6 per i bend a evoluzione lenta. Per gli incidenti di tipo II vengono proposti due schemi terapeutici. Si utilizzano o una tabella a 2,8 ATA per 5 ore (tabella di Workman e Goodman) o l’US Navy 6 per gli incidenti neurologici osservati tardivamente oltre la 6a ora o delle tabelle che utilizzano delle pressioni elevate di 4-6 ATA al massimo per una durata molto prolungata di 6 ore con una miscela tipo Heliox al fine di evitare gli incidenti legati alle forti pressioni parziali di ossigeno (tabelle GERS). La scelta dell’una o dell’altra dipende dall’esperienza personale e dalle disponibilità dell’equipe. Si associa una reidratazione con cristalloidi (Ringer lattato o soluzione fisiologica). Il trasporto verso il centro iperbarico è effettuato sotto ossigeno normobarico a 8-10 l min-1. Alcuni autori raccomandano la somministrazione di aspirina a dose antiaggregante piastrinica per evitare la comparsa di microaggregati intorno alla bolla iniziale. In tutti i casi, la precocità dell’ossigenoterapia normobarica, e poi iperbarica, è fondamentale perché permette di limitare gli effetti patologici e di evitare le lesioni ipossiche definitive.

Embolia gassosa sintomatica Si indicano sotto questo termine le manifestazioni ischemiche o neurologiche legate alla migrazione dei gas sotto forma di bolle nel sistema intravascolare, arterioso o venoso. Gli elementi di gravità sono il volume, la velocità di iniezione e la natura del gas o la presenza di un forame ovale pervio che permette il passaggio delle bolle dal circolo venoso verso la circolazione arteriosa [31]. Le cause più frequenti sono di origine iatrogena. Le azioni terapeutiche rappresentano un terzo dei casi di riferimento. L’introduzione accidentale di aria attraverso una lesione vascolare è la seconda causa di EG. Le altre cause sono, nella maggior parte dei casi, traumatiche, o per ferita toracica o da pneumotorace o pneumomediastino. La sintomatologia è dominata da due tipi di manifestazioni: segni neurologici che hanno una semeiologia estremamente varia e segni cardiorespiratori gravi che si traducono in un’insufficienza respiratoria acuta o in un quadro di cuore polmonare acuto. Nel paziente sotto anestesia generale la diagnosi può essere ardua e devono essere chiaramente identificate le procedure chirurgiche a rischio. La comparsa di sforzi di tosse senza alcuna spiegazione, ma soprattutto l’analisi dei dati del monitoraggio permettono di sospettare la diagnosi. Una caduta improvvisa della CO2 espirata sulla registrazione capnografica durante una procedura a rischio è molto suggestiva di EG. Quando il volume gassoso embolizzato è importante, alla caduta della CO2 espirata si associano ipotensione arteriosa e riduzione della SpO2. Quando il rischio intraoperatorio è molto elevato come nelle procedure neurochirurgiche in posizione seduta, si possono associare strumenti specifici di diagnosi al monitoraggio classico, come l’ecocardiografia transesofagea, il Doppler Anestesia-Rianimazione

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transcranico o l’elettroencefalogramma (EEG). Nel postoperatorio l’EG si traduce spesso con un risveglio ritardato o non adeguato. Alla comparsa di un’EG intraoperatoria, bisogna prima di tutto ridurre il volume dell’embolo. Il campo operatorio è inondato con una soluzione fisiologica e il meccanismo responsabile dell’embolia deve essere rapidamente identificato e trattato. Occorre quindi gestire i deficit neurologici e cardiologici in attesa della ricompressione. L’OTI deve essere eseguita il più rapidamente possibile con delle tabelle «lunghe» o in ossigeno tipo US Navy o in pressione tipo GERS, come per gli incidenti da decompressione. Tutte queste tabelle consentono una decompressione lenta con diversi stadi intermedi per evitare il rischio di riespansione delle bolle. Il risultato clinico dipende dalla precocità del trattamento, con l’80% delle guarigioni senza postumi se l’OTI è stata applicata rapidamente, cioè in meno di 6 ore.

Infezioni gravi delle parti molli da germi anaerobi o misti La classificazione francese raggruppa tutte queste infezioni sotto il termine di «dermoipodermiti necrotizzanti». Basata unicamente sulla profondità della lesione, essa distingue celluliti, fasciti e miositi [32]. Questa indicazione è una delle più controverse [33]. È basata su un certo numero di studi sperimentali, il cui modello è la mionecrosi da Clostridium perfrigens. I primi lavori sono stati pubblicati da Brummelkamp nel 1961 [6] e poi da Hill. Nel 1973 Demello ha valutato l’efficacia rispettiva della chirurgia, della terapia antibiotica, dell’ossigenoterapia iperbarica e dell’associazione di queste diverse strategie terapeutiche su un modello di gangrena gassosa da Clostridium perfrigens nel cane. La combinazione delle tre terapie dava i risultati migliori, con una percentuale di sopravvivenza degli animali del 95%. La terapia antibiotica da sola permetteva la sopravvivenza solo nel 50% dei casi. Tutti gli animali trattati con l’associazione chirurgia e OTI senza terapia antibiotica morivano [12, 34] . Tuttavia, le infezioni gravi delle parti molli sono, nella maggior parte dei casi, polimicrobiche, e associano germi aerobi e anaerobi, allontanandosi quindi dal modello sperimentale [35]. Nessuno studio clinico randomizzato in doppio cieco è, ad oggi, disponibile. Sono state pubblicate soltanto diverse casistiche, a volte contraddittorie [36]. Anche se i vantaggi dell’OTI sono spesso sottolineati, come in uno studio francese di Goulon su 800 casi nel 1980 o, più recentemente, nell’importante revisione di Bakker del 2002 [37], questi studi sono privi di omogeneità: assenza di standardizzazione delle terapie antibiotiche e chirurgiche ma, soprattutto, terminologie variabili che si prestano a confusione. In Francia si adotta la classificazione anatomoclinica detta «europea», che ha il vantaggio di essere chiara e si basa sulla profondità della lesione [32]: • lesione sottocutanea: celluliti o fasciti necrotizzanti con due casi particolari: malattia di Fournier in caso di localizzazione a livello del perineo [38] o angina di Ludwig, nel caso di localizzazione sottomascellare; • lesione muscolare: mionecrosi clostridiale o meno. Soltanto questa patologia può essere definita «gangrena gassosa». Le modalità di somministrazione dell’OTI sono anch’esse controverse. Il protocollo sperimentale adottato da Hill è tuttora proposto frequentemente. La durata della seduta è di 90 minuti e la pressione è di 2,5 ATA. Si consigliano tre sedute il primo giorno, due i giorni successivi con una durata del trattamento che va da 5 giorni a 2 o 3 settimane. In pratica, questo protocollo si dimostra subito estremamente pesante e spesso incompatibile con la programmazione operatoria. Sembra razionale eseguire una seduta al giorno prima o dopo la procedura chirurgica, valutando giornalmente il rapporto rischio-beneficio della seduta. Il trattamento con ossigenoterapia iperbarica si inserisce quindi come un trattamento adiuvante in un trattamento medicochirurgico che si organizza in tre fasi: • terapia chirurgica con escissione del tessuto necrotico, drenaggi, medicazioni quotidiane; Anestesia-Rianimazione

• trattamento farmacologico con rianimazione e antibioticoterapia inizialmente probabilistica a forti dosi per garantire una battericidia tissutale (nella maggior parte dei casi è attivo: gli imidazolati, le b-lattamine con inibitori delle b-lattamasi e l’imipenem), secondariamente adattata ai risultati batteriologici dei diversi prelievi; • le sedute di OTI che inquadrano idealmente la procedura chirurgica.

Sindrome da schiacciamento degli arti o crush syndrome A lungo considerata come un’indicazione di tipo II dopo i lavori sperimentali di Strauss sul cane [39, 40] e varie esperienze cliniche, la crush syndrome è divenuta nel 2004 un’indicazione di tipo I in gran parte grazie allo studio monocentrico randomizzato in doppio cieco effettuato nel 1996 da Bouachour [41]. Il trattamento con OTI era iniziato nelle 24 ore dopo l’incidente. Questo studio riguardava 36 pazienti suddivisi in due gruppi di 18, un gruppo OTI che ha ricevuto ossigeno puro a 2,5 ATA e un gruppo placebo che ha ricevuto aria a una pressione di 1,1 ATA, per 90 minuti due volte al giorno per 6 giorni. I due gruppi erano simili in termini di età, fattori di rischio, numero, tipo e localizzazione delle lesioni vascolari, nervose od ossee, così come di tempo della gestione chirurgica. La cicatrizzazione è stata ottenuta in 17 pazienti del gruppo OTI vs solo 10 del gruppo placebo. Dopo l’OTI sono state necessarie nuove procedure chirurgiche in un paziente del gruppo OTI rispetto ai sei pazienti del gruppo placebo. Queste differenze sono significative. Durata del ricovero e numero di medicazioni necessarie non erano diversi tra i due gruppi [42].

Lesioni tissutali postirradiazione Le lesioni radio-indotte hanno un’incidenza compresa tra il 5 e il 20% e compaiono da 6 mesi a 15 anni dopo l’irradiazione quando la dose totale supera i 50 gray. Gli effetti patologici tardivi delle radiazioni ionizzanti sono frequenti a livello dei tessuti connettivi. A questo livello si trovano delle lesioni dell’endotelio, un’endoarterite obliterante, la formazione di trombi intravascolari e la riparazione fibrosa atrofica. Da una quarantina d’anni si sa che l’OTI migliora queste lesioni radio-indotte. Molti studi sugli animali e sull’uomo dimostrano che l’OTI induce un aumento della neovascolarizzazione e della cellularità dei tessuti irradiati. L’osteoradionecrosi (ORN) mandibolare, la cistite attinica [43] e la prevenzione dell’ORN mandibolare dopo l’estrazione dentaria in pazienti irradiati sembrano essere le indicazioni migliori. La 5a consensus conference di Lisbona del 2001, le pubblicazioni di Coulthard e Denton nel The Cochrane Library nel 2002 e il rapporto del 2003 del comitato di ossigenoterapia dell’UHMS hanno condotto il collegio giudicante della 7a consensus conference di Lille nel 2004 a porre queste tre indicazioni nelle raccomandazioni di tipo I [44-46]. Per l’osteoradionecrosi mandibolare Marx ritrova, in uno studio condotto su 268 pazienti, un successo nel 100% dei casi quando l’OTI è associata alla terapia antibiotica, alle cure locali e all’esecuzione di una sequestrectomia parziale [47, 48]. Per la cistite attinica l’analisi della letteratura effettuata da Feldmeier su 136 pazienti mostra che l’OTI è associata a una riduzione dei sintomi (ematuria, dolore, infezione urinaria recidivante) e la cistectomia totale è evitata nell’82,4% dei casi [49]. Infine, l’indicazione di prevenzione dell’ORN mandibolare dopo l’estrazione dentaria si basa su molte pubblicazioni di casi e su uno studio prospettico randomizzato [50]. Le indicazioni che riguardano le lesioni tissutali postirradiazione richiedono un rilevante numero di sedute. Queste sedute sono effettuate a 2,5 ATA per 60 minuti in O2 puro. Per la prevenzione dell’ORN mandibolare dopo l’estrazione dentaria si eseguono 10 sedute prima e dopo l’atto. Le altre lesioni radio-indotte rispondono solo a indicazioni di tipo II o III [49].

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I – 36-940-A-10 ¶ Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni

Indicazioni di tipo II • • • • • • •

Lesioni del piede diabetico. Sordità improvvisa. Innesti e lembi a vascolarizzazione compromessa. Osteoradionecrosi (altre ossa). Enterite attinica. Lesioni attiniche dei tessuti molli. Trattamento preventivo prima di una chirurgia o impianto in una zona irradiata. • Ulcera cutanea ischemica. • Osteomielite refrattaria cronica. • Neuroblastoma di stadio IV. La gestione di queste indicazioni si effettua in modo programmato. Queste diverse indicazioni hanno un livello C di prova, a eccezione del piede diabetico per il quale si calcola un livello B. Le lesioni del piede diabetico e le sordità improvvise sono di gran lunga le indicazioni più frequenti.

Lesioni del piede diabetico L’arteriopatia ateromatosa degli arti inferiori, con o senza ischemia critica, è una patologia per la quale è lecito aspettarsi un effetto benefico dell’OTI. La gestione terapeutica dell’arteriopatia comprende un trattamento medico mediante vasodilatatori e farmaci anti-ischemici e antiossidanti e un trattamento con l’associazione di tecniche radiochirurgiche di disostruzione o di rivascolarizzazione [51-54]. Questa patologia riguarda l’1% degli uomini di più di 55 anni. La riduzione del flusso ematico totale provoca una diminuzione della perfusione della microcircolazione, con una diminuzione della perfusione capillare e un’ischemia da ipossia tissutale. Per i suoi effetti fisiologici l’OTI permette di migliorare la vascolarizzazione locale e di lottare contro l’infezione e migliora la riparazione tissutale. Quando e come usare l’OTI in questa indicazione? Si tratta sempre di una gestione multidisciplinare: medicochirurgica e radiologica [55, 56]. La valutazione dell’ischemia deve implicare: • una fase di valutazione dello stato circolatorio, con metodiche non invasive o invasive; • una consulenza chirurgica, per valutare la possibilità di un intervento di rivascolarizzazione, di disostruzione o di bypass o la possibilità di un’angioplastica con tecnica radiointerventistica o, ancora, di una trombolisi. Il malato è ospedalizzato in un’unità che permette cure locali ripetute, tenendo presente che il rischio evolutivo è l’amputazione. Alcuni chirurghi utilizzano l’OTI in associazione con la chirurgia in fase preoperatoria a titolo antalgico e antinfettivo e, nel postoperatorio, per migliorare l’ossigenazione locale [57]. L’indicazione dell’OTI nel trattamento delle lesioni del piede nel diabetico è stata oggetto della 4a consensus conference nella medicina iperbarica nel dicembre del 1998 a Londra [58, 59]. In modo sintetico, è stato concluso che i pazienti candidati all’OTI sono quelli che presentano segni di ischemia critica senza alcun trattamento chirurgico ipotizzabile oltre a un’amputazione. Tuttavia, non tutti i piedi diabetici traggono beneficio dall’OTI ed è necessaria una valutazione della pressione parziale transcutanea di ossigeno (PtcO 2 ). Quando la PtcO 2 è superiore a 20 mmHg in aria ambiente, non c’è un’ischemia critica e non è necessario usare l’OTI. Invece, se esiste un’ischemia critica, è utile eseguire una misura a 2,5 ATA sotto una FiO2 del 100%. Nel diabetico che presenta la combinazione di micro- e macroangiopatia e, spesso, di una neuropatia, sono possibili tre evoluzioni: • se la PtcO2 diventa superiore a 400 mmHg, il trattamento con OTI è efficace ed è possibile una cicatrizzazione e perfino una guarigione; • se la PtcO2 è inferiore a 200 mmHg a 2,5 ATA, il trattamento con OTI è spesso votato al fallimento; • nel caso in cui la PtcO2 sia compresa tra 200 e 400 mmHg, un tentativo di OTI può essere eseguito se il paziente non presenta controindicazioni.

6

Le sedute durano 60 minuti a 2,5 ATA in ossigeno puro e devono essere ripetute. Il numero di sedute necessario è importante e, spesso, superiore a 30. Da un punto di vista economico sembra che l’uso dell’OTI possa essere interessante. È proposto uno studio randomizzato per valutare i risultati e analizzare il rapporto costo/efficacia dell’OTI nelle lesioni del piede diabetico. In tutti gli altri casi di ischemia cronica degli arti inferiori, si tratta soprattutto di un’arteriopatia tipo angiopatia e il trattamento con OTI segue gli stessi principi. Tuttavia, in questi pazienti non diabetici il trattamento può essere previsto dopo aver ottenuto una PtcO2 di 200 mmHg a 2,5 ATA in ossigeno puro con risultati soddisfacenti. La somministrazione di OTI è, quindi, attualmente, uno dei trattamenti dell’ischemia critica degli arti inferiori in associazione con i presidi terapeutici abituali, in particolare quando non è possibile alcun intervento chirurgico e il paziente non migliora o peggiora, nonostante un trattamento medico ben condotto.

Sordità improvvise La terapia con OTI aumenta la pressione parziale di ossigeno locale, migliorando la viscosità ematica e l’elasticità dei globuli rossi in circolo all’interno dei microvasi dell’orecchio interno. Tuttavia, questa indicazione è tuttora oggetto di controversie [60]. La revisione della letteratura fatta da Lamm et al. ritrova un effetto benefico dell’OTI, dopo il fallimento della terapia con corticosteroidi e vasodilatatori, se è somministrata nei 3 mesi dopo la comparsa del deficit [61]. In questa revisione non viene fatta purtroppo alcuna differenza in funzione della causa della sordità. Non sono disponibili studi randomizzati in doppio cieco effettuati a questo riguardo.

Innesti e lembi a vascolarizzazione compromessa Questa indicazione ha interesse solo se l’OTI è iniziata prima della 48a ora di ischemia e se produce un beneficio reale di variazione della pressione transcutanea di ossigeno (58 mmHg è il valore soglia che permette di sperare in un successo). Le sedute si effettuano a 2,5 ATA per 90 minuti in ossigeno puro in ragione di due sedute al giorno per 7 giorni. Non c’è interesse a effettuare più di 20 sedute [62].

Indicazioni di tipo III Si tratta di indicazioni opzionali. Queste indicazioni sono numerose. Tra esse si riscontra l’encefalopatia postanossica [63-65]. Sono stati valutati gli effetti dell’OTI dopo una mancata impiccagione. Mathieu et al. hanno riportato nel 1988 uno studio su 170 pazienti tra i quali 142 sono guariti senza postumi. L’OTI agirebbe come antiedematoso cerebrale. Per questi autori, l’impiccagione provoca un’anossia cerebrale grave la cui evoluzione sembra poter essere favorevole se l’OTI è istituita rapidamente (nelle prime 3 ore) [66]. Il ritmo raccomandato delle sedute è di tre per le prime 24 ore e poi di due le seguenti 24 ore, vale a dire in totale cinque sedute di 90 minuti.

■ Esecuzione pratica dell’OTI Attrezzatura L’OTI è eseguita in una camera iperbarica terapeutica, che è un ambiente pressurizzato capace di accogliere una o più persone (Fig. 1). Esistono due tipi di camere: • le camere monoposto, a compartimento unico, per un solo paziente. Queste non consentono l’accesso diretto al paziente durante il trattamento. La loro messa in pressione è eseguita, nella maggior parte dei casi, in ossigeno puro; • le camere multiposto, a due o più compartimenti, che permettono l’accesso di personale accompagnatore e la gestione dei pazienti di rianimazione. La loro messa in pressione è eseguita ad aria, erogata da compressori. Anestesia-Rianimazione

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• pompe-siringa classiche sostituite da pompe-siringa elettriche «iperbariche». Il controllo del paziente durante la seduta è eseguito dal personale accompagnatore, presente nella camera, e dall’operatore della camera, che assicura la messa in opera in tutta sicurezza della seduta iperbarica, in conformità con le procedure definite dal medico iperbarico. Alcuni oblò permettono il controllo visivo. Esiste, infine, l’ascolto sonoro permanente per mezzo di interfoni, che consentono una comunicazione verbale rapida. Nel corso della seduta il personale può accedere rapidamente alla camera con l’intermediazione di una camera di decompressione. Un codice europeo di buona pratica per l’OTI è stato elaborato nel 2004 [67].

Tabelle terapeutiche

Figura 1.

Camera iperbarica multiposto.

Nel 2004 a livello europeo sono state stabilite delle regole di buona pratica. Esse riguardano la sicurezza dei pazienti e del personale, l’organizzazione di un centro di medicina iperbarica, la formazione del personale e le procedure standard e di emergenza [67]. La seduta iperbarica è il tempo di esposizione a una pressione aumentata al di sopra della pressione atmosferica. Essa comporta tre fasi: • una fase di compressione: la velocità di compressione è adattata alla tolleranza dei pazienti e del personale accompagnatore: di solito 0,1 ATA/min; • una fase di quota, a un livello di pressione definito nel protocollo di terapia. La durata di questa fase è variabile, 60-90 minuti in media. Durante questa fase il paziente respira ossigeno puro. • una fase di decompressione: la velocità di decompressione è lenta, dell’ordine di 0,1 ATA/min, e deve rispettare le stesse regole dell’immersione subacquea. Delle quote possono essere necessarie per l’accompagnatore che respira aria, a seconda della durata e del livello di pressione della seduta.

Preparazione e sorveglianza di un paziente per l’OTI La gestione di un paziente per l’OTI comporta una consulenza medica preliminare, il cui scopo è quello di validare l’indicazione terapeutica e di ricercare una controindicazione all’OTI. Le controindicazioni assolute sono uno pneumotorace non drenato, l’angor instabile o l’infarto del miocardio in fase acuta e l’asma acuto. Altre controindicazioni sono relative: enfisema polmonare, crisi comiziali, affezioni ORL quali sinusiti, otiti e riniti croniche, e claustrofobia. Queste sono messe a confronto con il beneficio atteso dall’OTI [68]. La preparazione di un paziente di rianimazione comporta alcune misure specifiche. Questa preparazione può essere affrontata sotto forma di check-list [69, 70]: • prosecuzione del monitoraggio elettrocardiografico e del controllo della pressione arteriosa non invasiva e instaurazione di una misura della pressione parziale transcutanea di ossigeno e CO2; • gonfiaggio del palloncino della sonda di intubazione o di tracheotomia con l’acqua; • messa in sicurezza delle linee di perfusione (permeabilità e controllo dei raccordi al fine di evitare qualsiasi presa d’aria); • sondino nasogastrico in aspirazione o in sacca; • rimozione di set di drenaggio e flaconi di drenaggio in materiale plastico rigido che possono essere danneggiati dalla pressione e sostituzione con sacche sterili da urine; • interposizione di una valvola di Heimlich su entrambi i tubi di drenaggio toracico per permettere una depressione manuale; Anestesia-Rianimazione

Sono definite prendendo in considerazione sia la pressione sia le alte pressioni parziali di ossigeno. La tabella di compressione più utilizzata è la compressione a 2,5 ATA per 60 minuti con una fase di compressione di 15 minuti e una fase di decompressione della stessa durata. Il comportamento differisce quando si devono trattare un’embolia gassosa o un incidente da decompressione. Esistono allora due strategie: • il metodo nordamericano (tabelle US Navy), che privilegia l’ossigeno puro respirato a una pressione massima tollerabile di 2,8 ATA a spese della profondità di compressione che rimane bassa (18 metri). Queste tabelle utilizzano l’effetto di denitrogenazione per ridurre il volume della bolla. Queste sono due (tabelle US Navy 5 e 6) e sono adattate all’evoluzione clinica del paziente durante la fase in pressione (Tabella 2, Figg. 2 e 3); • il metodo francese (tabella GERS), che sceglie una compressione a una pressione più importante, 4 ATA (ovvero 30 metri) in generale. A questa pressione il volume della bolla è ridotto a un quarto di ciò che è in superficie. Questa pressione è un compromesso tra il rischio di narcosi per l’accompagnatore e il raggiungimento di un profilo di decompressione che non faccia peggiorare l’incidentato. L’incidentato respira in un secondo tempo delle miscele iperossigenate a tenore crescente di ossigeno (40%, quindi 60%), poi ossigeno puro al di sopra dei 18 metri. Esistono tre tabelle GERS: A, B, C di durata crescente (6 ore, 8,5 ore e 17 ore, Tabella 3, Figura 4). Le tabelle US Navy sono utilizzate nelle forme osteoarticolari, negli incidenti midollari di gravità moderata, dopo un’immersione a meno di 40 metri e negli incidenti cocleovestibolari. Le tabelle GERS darebbero risultati migliori nel trattamento degli incidenti da decompressione con sintomi neurologici periferici o centrali visti prima della 12a ora e, idealmente, prima della 3a ora. In pratica, si comincia con la tabella corta e il passaggio a una tabella di lunga durata si decide alla quota di 15 o 9 metri in funzione della persistenza o meno della sintomatologia.

■ Limiti e incidenti dell’OTI L’OTI è una tecnica impegnativa e costosa, che richiede un forte investimento umano e materiale. Essa comporta dei rischi, sia per i pazienti sia per gli accompagnatori, il che impone delle ferree regole di sicurezza [71]. Le complicanze sono di diversi tipi: biochimiche, legate al dissolvimento dei gas nell’organismo, biofisiche, legate alle variazioni di pressione (barotrauma), e, infine, ci sono le complicanze dovute al materiale [72, 73].

Incidenti biochimici Derivano dall’aumento della pressione parziale dei gas inalati: ossigeno e azoto presenti nell’aria della camera.

7

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Tabella 2. Le tabelle US Navy. Profondità in metri (m)

18

Tabella USN 5

Tabella USN 6

Miglioramento dei sintomi dopo 10 minuti a 18 m

Assenza di miglioramenti dopo 10 minuti a 18 m

Miscele respirate

Durata in minuti

Tempo totale in minuti

Durata in minuti

Tempo totale in minuti

20

20

20

20

O2 puro

5

25

5

25

Aria

20

45

20

45

O2 puro

5

50

Aria

20

70

O2 puro

5

75

Aria

18-9

30

75

30

105

O2 puro

9

5

80

15

120

Aria

20

100

60

180

O2 puro

5

105

15

195

Aria

60

255

O2 puro

30

285

O2 puro

9 alla superficie

30

135

75

135

3 30

6 5 20

9

Tempo in minuti

Tabella 3. Le tabelle GERS. Profondità in metri

L'accompagnatore respira dell'O2 puro durante la risalita da 9 metri alla superficie

5

12

Durata in minuti

Miscele respirate

Tabella A

Tabella B

Tabella C

30 min

30 min

30 min

40%

27 (facoltativo) 30 min

30 min

30 min

40%

24

30 min

30 min

60 min

40%

21

30 min

30 min

60 min

60%

18

30 min

30 min

60 min

60%

15

30 min

60 min

120 min

25 min in O2 puro

12

30 min

60 min

120 min

25 min in O2 puro

9

30 min

60 min

360 min

25 min in O2 puro

6

30 min

60 min

60 min

25 min in O2 puro

3

30 min

60 min

60 min

25 min in O2 puro

510 min

1020 min

30

5 min in aria

30

15 18

5 min in aria Aria O2 puro

20 5 20

5 min in aria 5 min in aria

Profondità in metri

5 min in aria

Figura 2. Tabella US Navy 5.

285

Tempo in minuti

3 30

6

12 30

15 20 5 20 5 20 5

60

15

60

L'accompagnatore respira dell' O2 puro, 10 minuti dopo l'arrivo alla quota di 9 metri e fino alla superficie Aria O2 puro

Profondità in metri Figura 3. Tabella US Navy 6.

Tossicità dell’ossigeno È conosciuta dopo i lavori di Paul Bert [74].

8

Tre organi sono i bersagli principali: il cervello, il polmone e l’occhio. Il meccanismo di questa tossicità è attribuito alla comparsa di radicali liberi. Tossicità neurologica (effetto Paul Bert)

15

9

18

Durata totale 360 min con durate delle variazioni di pressione

Si manifesta con la comparsa improvvisa di una crisi convulsiva di tipo tonicoclonico (quando la pressione parziale di ossigeno è superiore a 1,6 bar). La sua frequenza è di 1,3 per 10 000 sedute [73]. Può essere preceduta da prodromi tipo malessere, fascicolazioni del volto e restringimento del campo visivo. L’evoluzione di questo tipo di crisi è sempre favorevole [75]. Essa recede spontaneamente con la sospensione dell’ossigeno (rimozione della maschera durante una seduta di OTI) e può essere prevenuta alternando periodi sotto ossigeno e sotto aria. In pratica, il paziente riceve ossigeno puro con l’intermediazione di una maschera facciale o di una sonda da intubazione in alternanza con l’aria per una durata di 5 minuti ogni 25 minuti. Una prevenzione con benzodiazepine può essere eseguita nei pazienti che hanno già avuto una crisi iperossica e che devono assolutamente eseguire una seduta di OTI. Sono stati proposti valori da non superare per aumentare la sicurezza. Sembra che oltre 2,7 ATA, il rischio sia aumentato per una seduta di 90 minuti. Anestesia-Rianimazione

Ossigenoterapia iperbarica. Principi e indicazioni ¶ I – 36-940-A-10

360

0 30

3 30

6 30

9 30

12 30

15 30

18 30

21 30

Tempo in minuti

6

6

6

6

6

6

6

6

24 30

6

27 30

30

6

O2 puro per 25 minuti, quindi aria per 5 minuti O2 60% O2 40%

Profondità in metri Figura 4. Tabella GERS A.

Tossicità polmonare (effetto Lorrain Smith) L’ossigeno a forti pressioni provoca un’irritazione dell’albero tracheobronchiale e, addirittura, un vero edema polmonare lesionale che può evolvere in fibrosi associata a una riduzione della compliance e della capacità vitale. Tuttavia, i sintomi si osservano solo dopo 8-10 ore di esposizione a pressioni rilevanti, circostanze raramente riscontrate nei protocolli di iperbaria praticati. Tossicità oftalmologica I trattamenti prolungati con OTI possono essere causa di una miopia che sarebbe dovuta a una modificazione della curvatura del cristallino per le ripetute compressioni e decompressioni più che a una vera e propria tossicità dell’O2 [68].

Tossicità dell’azoto Potrebbe riguardare l’accompagnatore che respira aria. Di fatto, si osserva solo per compressioni che superano 5 ATA, il che è eccezionale nella medicina iperbarica. Si tratta di disturbi neurologici e comportamentali, descritti sotto il nome di «narcosi da azoto».

Incidenti biofisici Si tratta da una parte degli incidenti da decompressione, dovuti all’azoto, e, dall’altra, degli incidenti da barotrauma.

Incidenti da decompressione Riguardano soprattutto il personale che accompagna e che respira dell’aria nel corso della seduta, essendo così esposto al rischio di formazione di bolle di azoto nella fase di decompressione. Gli episodi acuti sono eccezionali dentro la camera, grazie al rispetto delle procedure di sicurezza e, in particolare, delle tabelle di decompressione [76, 77].

Incidenti da barotrauma Sono i più frequenti, abitualmente benigni (barotrauma ORL, durante la fase di compressione) e raramente gravi (iperpressione polmonare o peggioramento di uno pneumotorace nella fase di decompressione). Anestesia-Rianimazione

I barotraumi delle orecchie derivano dalla difficoltà di equilibrare le pressioni da parte della tuba di Eustachio la cui permeabilità è alterata. L’otite barotraumatica si manifesta con un dolore, più o meno vivace, e una sensazione di orecchio ovattato. All’esame, le lesioni timpaniche vanno dalla semplice congestione fino all’emotimpano, perfino alla lacerazione timpanica con otorragia. La prevenzione si attua con la valutazione ORL preliminare, la realizzazione delle manovre di equipressione (Valsalva) e l’adattamento della velocità di compressione ai pazienti e al personale che li accompagna. L’equipressione timpanica dei pazienti intubati in genere non pone problemi per lo stato di rilasciamento dei muscoli lisci della tuba di Eustachio [72]. Il barotrauma dei seni e dei denti sono identici a quelli osservati nei subacquei nelle stesse condizioni di pressione. Il barotrauma polmonare è invece più grave. L’iperpressione con decompressione a glottide chiusa può provocare uno stato di shock o un distress respiratorio da pneumotorace. Questo incidente è eccezionale nella medicina iperbarica, in quanto la velocità di risalita è generalmente limitata a 1 metro al minuto. Le forme di pneumotorace non drenato o mal drenato possono divenire compressive durante la risalita. L’identificazione mediante una radiografia del torace prima di qualsiasi compressione in urgenza e il drenaggio sistematico di qualsiasi spandimento aereo della pleura costituiscono la regola. Il rischio di EG è presente dopo un’iperpressione polmonare, ma bisogna sempre escludere un’EG iatrogena dovuta a un’infusione endovenosa. I barotraumi digestivi sono raramente osservati al di fuori dei pazienti che non hanno ripreso il transito dopo una chirurgia digestiva e che non hanno una sonda gastrica. Durante una seduta di OTI la sonda gastrica non deve mai essere clampata; viene posizionata in declive in una sacca o, meglio, in aspirazione dolce. L’operatore della camera svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione degli incidenti da barotrauma. Gestisce una messa in pressione progressiva, con una velocità di compressione raccomandata di 1 metro al minuto, all’ascolto dei pazienti e di chi li accompagna. Fa eseguire ai pazienti le manovre di

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■ Conclusioni

equilibrio timpanico, tipo Valsalva. Il momento più critico è la messa in pressione e, quindi, il passaggio da 1 a 2 ATA. In risalita la decompressione può essere molto lenta e interrotta al minimo incidente. L’anomalia deve essere sistematicamente analizzata dal capo delle manovre iperbariche. Si deve evitare una risalita d’urgenza senza un’analisi dell’incidente.

L’OTI è un trattamento antico, utilizzato con indicazioni molto diverse. Alcuni studi sperimentali e clinici hanno permesso, nel corso degli ultimi 15 anni, di comprendere meglio i meccanismi d’azione e di apportare basi scientifiche a indicazioni meglio identificate. Consensus conference hanno così pubblicato raccomandazioni basate su dei livelli di prova chiaramente definiti. Sono state pubblicate anche alcune norme di funzionamento per fornire una sicurezza ottimale all’OTI, i cui rischi devono essere messi a confronto con il beneficio atteso per il paziente.

Incidenti dovuti al materiale L’incendio è l’incidente più temuto perché le sue conseguenze sono drammatiche [78]. Il rischio di ignizione di materiali infiammabili è aumentato in una camera iperbarica, tanto più in quanto si innalza la concentrazione di ossigeno. La prevenzione è essenziale: si realizza mediante l’allontanamento di qualsiasi sostanza infiammabile o materiale a rischio e mantenendo una concentrazione di ossigeno inferiore al 25%. Le camere iperbariche sono equipaggiate con un sistema di ventilazione che permette l’apporto di aria fresca e di sistemi di estrazione dei gas con scarichi che rimandano i gas all’esterno, e comportano mezzi di spegnimento. La procedura di emergenza è stabilita e affissa. Il rischio di EG iatrogena nel paziente perfuso deve essere evitato con misure semplici: utilizzo esclusivo di sacche morbide di infusione, verifica dei raccordi sulle linee di infusione, in particolare dei rubinetti a vie multiple, e sorveglianza continua nel corso della seduta, in particolare nei periodi di variazioni di pressione. Il rischio di ipercapnia esiste quando i sistemi di evacuazione dei gas sono difettosi: malfunzionamento delle valvole respiratorie o degli scarichi. La prevenzione è realizzata mediante il controllo del buon funzionamento delle maschere prima di ogni seduta e le regolari operazioni di mantenimento. Il rischio di contaminazione della camera iperbarica da parte di gas inquinanti (CO, solvente) è possibile, se i compressori che alimentano la camera sono in una zona inquinata. I compressori devono essere collocati in un sito protetto da qualsiasi inquinamento. La qualità dell’aria fornita dai compressori è quella dell’aria medicale, regolarmente controllata.



■ Riferimenti bibliografici [1]

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Punti essenziali

L’OTI si definisce come «la somministrazione di ossigeno a fini terapeutici sotto una pressione superiore alla pressione atmosferica». L’OTI comporta dei rischi e può provocare degli incidenti, in particolare dei barotraumi. Il suo impiego deve essere sottoposto a un confronto rischi-benefici. Le indicazioni dell’OTI sono state precisate e aggiornate in occasione della 7a consensus conference europea nella medicina iperbarica che si è tenuta a Lille nel dicembre del 2004. Esistono tre tipi di indicazioni: quelle di tipo I sono indicazioni fortemente raccomandate, che hanno un’importanza maggiore per l’evoluzione del paziente. I pazienti vittime di un’intossicazione da CO con un rischio elevato di complicanze immediate o a lungo termine, di un incidente da decompressione o di un’embolia gassosa sintomatica devono essere indirizzati nel più breve tempo possibile verso un centro iperbarico. Il passaggio preliminare nel servizio di pronto soccorso o in qualsiasi altra struttura di cure ritarda la gestione terapeutica. Le controindicazioni assolute all’OTI sono uno pneumotorace non drenato, l’angor instabile o l’infarto del miocardio in fase acuta e l’asma acuto. Enfisema polmonare, crisi comiziali, sinusiti, otiti, riniti croniche e claustrofobia sono controindicazioni relative da mettere a confronto con il beneficio atteso.

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